F_06_09_settimana1-120x1209 marzo 2013

Nel ministero sacerdotale non devono mai mancare il contatto con la realtà, la comunione e gli spazi per lasciar agire lo Spirito di Dio.

Vero prete solo se vero uomo

Da lunedì 28 a giovedì 31 gennaio i seminaristi del biennio sono stati impegnati nella cosiddetta “Settimana pastorale”, un’occasione di confronto sui diversi ambiti del ministero presbiterale e di conoscenza diretta di alcune realtà diocesane. Significativo l’incontro con mons. Mario Riboldi, che ha raccontato la sua esperienza tra i nomadi, don Norberto Brigatti, responsabile della Comunità pastorale di Casciago e don Stefano Crespi, vicario parrocchiale a San Giuliano Milanese.

Lo scontro con la realtà


All’apertura della Settimana pastorale non  potevano mancare le testimonianze di alcuni sacerdoti della nostra Chiesa ambrosiana.

«Dove sono ora e qual è il percorso che mi ha portato fin qui?» si domanda don Norberto Brigatti, sacerdote dal 1980 e da cinque anni parroco della Comunità pastorale S. Eusebio a Casciago (Varese). È nella celebrazione dei sacramenti, punti di contatto con Dio, che egli individua il centro della propria attività pastorale, è lì che il suo cammino umano e spirituale trova una sintesi e una verifica. È facile celebrare un rito senza credere che attraverso quel gesto passi davvero l’azione di Dio. Grande è anche il rischio di considerare se stessi, con le proprie capacità comunicative, psicologiche, organizzative e creative, i veri artefici della salvezza delle persone.

Percepire che attraverso l’«io ti assolvo dai tuoi peccati» la grazia di Dio si rende realmente presente e operante è il frutto di un cammino mai concluso, che richiede la disponibilità di lasciarsi plasmare dallo Spirito. Don Brigatti racconta tre fasi del suo cammino, partendo dallo scontro con la realtà. Cresciuto in un contesto dove la vita oratoriana era fiorente e dove il prete era ben accolto dalla comunità, l’impatto con Milano da sacerdote novello lo ha portato a scontrarsi con un’indifferenza diffusa che ha comportato la fatica di costruire sul campo la fiducia.

Obbedire alla realtà, accompagnando con fedeltà le persone che si hanno di fronte, con le loro speranze e fatiche, è infatti la prima sfida da accogliere e affrontare. C’è poi il rischio di cercare approvazione esibendo i propri talenti, tanto che la Parola e la liturgia diventano cose in più da fare e da adattare, senza credere fino in fondo nella loro capacità di parlare e trasformare la vita delle persone. È imparando a ritagliarsi e a difendere spazi di preghiera e di silenzio durante la giornata che don Brigatti ha scoperto come liberarsi dall’ingombranza del proprio io per lasciare spazio all’azione di Dio.F_06_09_settimana2

Infine c’è il passaggio dal mestiere all’umanità  del sacerdote dove, dal concentrarsi solo su ciò che serve direttamente per il proprio lavoro, si iniziano a coltivare momenti di gratuità: per parlare con chi incontri per strada o per gustare un bel libro, per lasciarsi provocare da un santo o per pranzare con gli alpini, senza preoccuparsi di dover convertire a tutti i costi, ma testimoniando con la propria umanità come lo Spirito possa cambiare la vita.

La lezione del seminario

Don Stefano Crespi inizia invece col raccontare la grande lezione di vita che il Seminario gli ha trasmesso. Se nei primi anni l’imparare l’obbedienza fedele alla regola e alla comunità lo ha messo a dura prova, durante il quadriennio è stata una domanda («che tipo di prete il Signore mi chiede di essere?») a fare da filo conduttore.

Attualmente è vicario parrocchiale a San Giuliano Milanese ed è impegnato in particolare nella Pastorale giovanile. Don Crespi sottolinea che un sacerdote cresce non solo scegliendo di affrontare col Signore tutte le sfide che si incontrano, ma anche costruendo relazioni significative con i sacerdoti con cui si è chiamati a collaborare, dando loro fiducia. «È grazie a quest’affidamento che sono cresciuto prima come uomo e in seguito come sacerdote», ci racconta.

Certo, i protagonisti sono e rimangono i ragazzi, ma come si può educare, se prima non si educa se stessi? Concentrarsi sull’essere uomini, crescere in umanità è la strada fortemente caldeggiata da don Crespi e dal nostro progetto educativo. Le persone hanno bisogno, oggi come non mai, di preti capaci di ascoltare e di accompagnare, di condividere le gioie e le sofferenze della propria comunità, più che di sacerdoti attenti alle cose da organizzare o che si perdono in riflessioni astratte, che non tengono conto delle esigenze reali.

Non basta dunque studiare Teologia, ma occorre soprattutto educare il proprio carattere, raggiungere una conoscenza molto più profonda di sé, smussare i difetti, crescere in cordialità e accoglienza reciproca, imparare a lavorare e a vivere insieme, perché «la rigidità non è mai evangelica ».

È allora importante che il Seminario aiuti a formare uomini dalla mente e dal cuore aperto, capaci di porsi nei confronti delle comunità come ospiti e non come padroni.

Spostandosi con i Rom

Ma le frontiere dell’evangelizzazione si estendono ben oltre le nostre parrocchie. Mons. Mario Riboldi, dal 1971 incaricato diocesano per la Pastorale dei nomadi, ha trascorso l’intera sua vita cercando di accompagnare nella fede coloro che il nostro mondo “civilizzato” ha emarginato. Stiamo parlando del popolo rom e di quelli che noi chiamiamo “zingari”.

Colpito dalla testimonianza di una professoressa  che decide di lasciare tutto per insegnare loro l’italiano, mons. Roboldi si accoda ad una piccola carovana rom diretta a Roma. Inizia così il suo ministero straordinario, rimanendo fedele all’amore per questo popolo, nonostante l’apparente fallimento di ogni iniziativa.

«Ci sono voluti almeno vent’anni per iniziare a comprenderli», ci confida il sacerdote, ricordandoci quanto poco conosciamo dei rom, pur essendo sempre prontissimi a giudicarli.

Spesso si cerca di imporre loro la nostra cultura, senza metterci realmente in ascolto della loro, comportandoci da colonizzatori più che da servi secondo il Vangelo. Quanti considerano che vi sono dei professori anche fra di loro? E cosa dire delle famiglie Orfei e Togni? Mons. Riboldi ci confida che la stragrande maggioranza dei rom crede in Dio con assoluta certezza. Si contano anche alcune vocazioni fra loro, ad esempio un vescovo in India e persino un santo.

Poi il sacerdote condivide con noi alcune riflessioni: chi si occupa di loro? Quanto la Chiesa si preoccupa di questa porzione del popolo di Dio? Questioni ancora lontane dall’essere seriamente considerate. Interessante l’esempio offerto dalla Chiesa ortodossa di Bucarest, che ha pubblicato un testo di preghiera in alcune delle lingue di questi popoli nomadi.

Noi iniziamo col fare tesoro dell’esempio missionario che mons. Riboldi, sacerdote ambrosiano, offre a tutta la Chiesa.

Simone Paleari, corso P
Marco Trevisanut, I teologia

(www.seminario.milano.it)