zio_vale_29 marzo 2013

Don Valentino Guglielmi. Un ricordo

Si!...un prete santo!

Era nato a Fumane (Verona) il 3 marzo 1940, è morto a Verona, improvvisamente,  il 5 ottobre 2012, al mattino, al risveglio, alzandosi per andare a celebrare la prima Messa. Nei tre giorni prima del funerale un ininterrotto flusso di persone amate sono corse a a vegliare e pregare, di fronte al suo volto immerso nella luce. Al funerale, celebrato dal Vescovo di Verona, erano presenti cento sacerdoti, e più di mille fedeli raccolti e commossi. Uno di loro, che lo ha conosciuto nell'ultima parrocchia a lui affidata, ha scritto questo ricordo. Spero di poter più avanti offrire alcuni dei suoi illuminanti scritti, che in vita era restio a pubblicare, nonostante i nostri pressanti inviti. Ha lasciato molti appunti manoscritti. Ho imparato molto da lui, ho riso molto alle sue battute folgoranti, nei miei anni di Verona, ho goduto insieme ad altri amici sacerdoti di una fraternità sacerdotale vera, forte e gioiosa, ho attinto al suo amore di Dio, al suo zelo di pastore di anime, alla sua intelligenza superiore. Al termine di questo ricordo un suo breve percorso biografico.


Fu un'amica a segnalarmi che nella parrocchia di  Sant'Eufemia a Verona c’era, non da molto, un prete che dicevano bravo. Andammo insieme a “provarlo”, alla messa della domenica sera. La chiesa era piena a metà e, tutto considerato, visto che si tratta della chiesa più grande della città, la cosa sembrava incoraggiante. Quello che mi apparve insufficiente fu lui, don Valentino: una gran testa di capelli grigi, un profilo da antico romano, un uomo dall'aspetto molto gradevole, ma piccolo, affondato nei paramenti, quando girò dietro all'altare –un grande tavolone di marmo bianco - quasi scomparve. Recitò le prime preghiere con voce lenta, compassata, con tono così sommesso che a volte facevo fatica a udirlo. Mi stavo rassegnando ad ascoltare una messa anodina, insapore, addirittura soporifera come a volte capita. Ma al momento dell’omelia, quando avanzò fino al pulpito, il piccolo don Valentino crebbe inaspettatamente, prese il dominio della navata.

Non mutò per nulla il tono di voce: niente oratoria roboante o effetti retorici di quelli usati –anche giustamente- da molti celebranti, ma pensiero incisivo e esattezza di esposizione. Estrasse, dalle letture del giorno, concetti impegnativi, tanto che mi domandai –presuntuosamente- quanti tra gli astanti stavano effettivamente seguendo quel discorso che, dipanandosi, assomigliava sempre più a una lezione di teologia. Ma dopo qualche minuto, percependo intorno a me una grande attenzione, capii che la sapiente semplicità con cui don Valentino ci guidava in temi complessi, li rendeva comprensibili. E c’era di più: sentivo che le sue parole, entrandomi nella mente, vi smuovevano qualcosa, minavano il pigro equilibrio della mia coscienza. Le sentivo lanciarmi una sfida: prova, adesso, a riassopirti, dicevano, prova a rifugiarti nelle solite formule consunte e rassicuranti. Prova a continuare tranquillo nella tua routine. Pendevo dalle sue labbra e, con me, tutta l’assemblea. Quando ebbe ottenuto l’apice dell’attenzione chiuse la predica con uno schiocco improvviso, una frustata, si girò, andò all'altare e iniziò il Credo. Avevo incontrato, quella sera di una domenica d’autunno, uno degli uomini più straordinari della mia vita. Ci vuole un po’ di tempo ed è necessario ascoltare più di una omelia, per apprezzare un bravo predicatore. E infatti fu dopo tre o quattro messe, superati certi miei schemi mentali, che cominciai a intuire –era solo un sospetto per il momento- le profondità verso cui quel piccolo prete ci attirava pian piano, senza apparentemente sospingerci, senza volerle imporre, ma solo indicandocele, mostrandocene, in lontananza, la possibilità. Dopo un paio di mesi attendevo la domenica sera con impazienza, come un appassionato di calcio aspetta i risultati della squadra favorita. La differenza era che con don Valentino perdevo tutte le partite: era sempre lui a vincere. Era lui a fare gol. La porta in cui, domenica dopo domenica, insaccava i suoi tiri magistrali, era il mio cuore. Eppure don Valentino non era un sentimentale. L’invito che ci rivolgeva con le sue omelie perforava l’involucro umido, emotivo, della psiche, e cercava invece quello strato profondo e misterioso, dove la razionalità e la sensibilità di ognuno si incontrano alle rispettive sorgenti, “Dove l’uomo è più solo e dove è più uomo” come scriveva, e che a volte identificava con il concetto agostiniano di “Cuore”. Una volta toccato, questo “cuore” –il mio come, credo, quello di tutti gli altri- non poteva più restare indifferente. Alcune sue omelie, pronunciate con quel ritmo lento e quel tono di voce pacato che erano suoi, si stampavano nella memoria come incisioni al laser nel bronzo. Ricordo una sera d’inverno in cui parlò della preghiera, ci invitò a rivolgerci a Dio come a un padre, con la fiducia, la confidenza e l’insistenza dei figli che sanno bene, fin da piccoli, come il papà non può e non vuole sottrarsi dal far loro tutto il bene possibile. “Voglio Te!” esclamò alla fine e, cosa insolita per lui, alzò gli occhi e perfino una mano per enfatizzare il concetto, “Ti voglio tutto! Non mi accontenterò di nulla di meno che di Te!” Poi si girò e andò all'altare a recitare il Credo.  La sua idea di Cristianesimo, così come la andavo deducendo, domenica dopo domenica, dalle sue omelie, era agli antipodi di quel sistema di regolette morali, di pie pratiche e di sospiri svenevoli che a volte passa per religione. La proposta cristiana era per lui una sfida, un cimento, un’impresa nobile e virile. “Invochiamo la Santa Vergine perché ci aiuti nell'impresa” e “Preghiamo lo Spirito Santo perché aumenti le nostre forze e ci sostenga nell'impresa”, erano le chiusure più ricorrenti delle sue prediche. Potevano sembrare esortazioni di un capitano di ventura rivolte ai suoi cavalieri in procinto di una battaglia, e lo erano in un certo senso, sempre che si tenga presente che la guerra in cui don Valentino ci guidava era contro la nostra pigrizia, e che le armi di cui ci voleva dotare erano l’umiltà, la carità, l’attenzione all'altro  la volontà di non giudicare. Ma la sua visione del Cristianesimo era dotata di un’architettura troppo poderosa perché nelle omelie potesse lasciarsi conoscere completamente. Fu la stessa amica che vinse qualche mia resistenza e mi persuase a prender parte agli incontri settimanali di catechismo. Ci arrivai con un bagaglio di pregiudizi e perfino una punta di sufficienza. Bastò mezz'ora per fare strage di quei miei atteggiamenti. Se dal pulpito il piccolo prete dominava con la sua potente semplicità, nelle riunioni di catechismo, cui partecipavano dalle due alle dieci persone al massimo, don Valentino si imponeva per la delicatezza con cui ci faceva dono dei tesori della sua personale, finissima, ricerca spirituale. Anche qui, come dal pulpito, che commentassimo l’inquietante S. Paolo o il Qohelet, Sant’Agostino o un’enciclica del Papa, la sua capacità di sintesi ci restituiva i testi in una forma così semplice da renderceli subito familiari. Certo, veniva da pensare, è logico, è questo il significato. Come accade solo con le idee veramente luminose, mi sembrava di aver sempre saputo che il senso di un testo sacro fosse quello; solo dopo un po’ mi rendevo conto che non era così e mi meravigliavo della mia miopia. “Un uomo che si avvicina a Dio è come un uomo che va alla fonte con un secchio”, diceva. “Non può sperare di mettere tutta la sorgente nel secchio; ma può riempire il suo secchio di Dio.” Quindi taceva, lasciava sedimentare quel concetto nei nostri animi, sorrideva con un’aria amabile e furbesca (sapeva bene di aver colpito nel profondo), poi riprendeva: “Ora, se il nostro secchio è pieno di detriti, sarà poca l’acqua che potremo metterci. Conviene quindi, prima di accostarci alla fonte, svuotare e ripulire il secchio.” E quindi? chiedevamo. “E quindi Dio è la fonte, il secchio è il nostro cuore. Se vogliamo accogliervi Dio, dobbiamo prima svuotarlo e presentarci a Lui nudi e semplici, come bambini.” E cosa sono i detriti? domandavamo a questo punto.

“I detriti sono il nostro orgoglio. Per cui la prima cosa che mi converrà fare sarà di capire che io non mi sono fatto da solo. Non sono venuto al mondo per mia volontà, ma è Dio che mi ha donato a me stesso, attraverso l’intervento dei miei genitori, che hanno agito da pro-creatori. Sono nato da un atto d’amore cui non ho partecipato, segno presente dell’amore di Dio per me. Accettandomi come creatura svuoterò il mio secchio dai detriti dell’orgoglio.” Restavamo muti, quasi spauriti da quelle profondità. Era però un peso fertile: come un sacco di sementi gettato in terra, durante la settimana germogliava e produceva i suoi frutti. Il mercoledì successivo andavo ad ascoltare il seguito con avidità. Spesso prendeva il via dalla vicenda della donna adultera (Gv. 8,3-11), una delle sue predilette, per approfondire il medesimo concetto: “Ognuno di noi vede gli altri come riflessi in uno specchio in fondo a un pozzo. Questo specchio è il nostro cuore. Gesù che, da vero signore qual’era, si alzò in piedi quando ebbe davanti la donna, la vide riflessa nel proprio animo. Questo, privo di qualsiasi impurità, gli restituì l’immagine di quella peccatrice come figlia di Dio, somigliante a Dio. Gesù vide in lei l’invisibile. Anche la donna, dopo essersi vista come oggetto negli occhi dell’amante, come colpevole in quelli del marito e dei giudici, si vide riflessa negli occhi del Signore. E improvvisamente si scoprì come mai si era immaginata. Figlia di Dio, amata non per quello che rappresentava, ma per lei stessa.” E quindi, chiedevamo con un filo di voce. “E quindi converrà che noi seguiamo l’esempio del Signore. Che impariamo a vedere nell'altro l’invisibile. Che impariamo a non giudicare.”  Ma gli altri hanno dei difetti, a volte ci fanno perfino del male, protestavamo. Oppure: don Valentino, non può chiederci di ottundere la nostra capacità di giudizio sugli altri, obiettavamo, necessaria per vivere, e che a volte fa perfino parte dei nostri doveri. “Non si tratta di non capire, di intontirsi,” rispondeva, “ma di acuire il nostro sguardo, di imparare a vedere oltre lo strato dei pregi e dei difetti. Si tratta di imparare le persone.” Nel silenzio pensoso che seguiva, citava una frase di Giovanni Paolo II: “Ti sto imparando uomo, ti imparo piano piano. Di questa dolce fatica, soffre e gioisce il cuore.” Mi sembra una cosa sovrumana, commentava qualcuno. “Lo è”, ammetteva lui. E allora? “Ci viene in aiuto la Grazia. Per questo non dobbiamo stancarci di chiederla allo Spirito Santo.” E come si fa a ottenerla, questa benedetta grazia? “Svuotando il secchio,” precisava, e sorrideva, arguto e simpatico, come un compagno di scuola più vecchio che svela le regole e i trucchi del gioco ai bambini più piccoli. E le fonti? Dove sono le fonti? Chiedevamo esasperati. “Le fonti sono le persone”, concludeva implacabile. “Le fonti sono gli altri.”  Improvvisamente, nelle sue spiegazioni, le parole delle Scritture, sentite fin da bambino in chiesa e al catechismo, recepite automaticamente, sedimentate senza veramente capirle, vincevano le resistenze della mia mente di adulto e prendevano senso. Grazia, Spirito Santo, immagine e somiglianza di Dio, Fede, Speranza, Carità. Astrazioni che, raccontate da lui, si facevano di sangue e di carne. Diventavano gli altri: questa signora, seduta accanto a me, e di cui ignoravo il nome e la storia; quel passante sconosciuto che mi aveva chiesto qualcosa per strada; mia zia, che non sopportavo. Tutti costoro andavano “imparati”. Erano occasioni per la mia crescita, gradini sul cammino della mia perfezione. Della mia felicità.  Riportate in questa forma abbreviata, me ne rendo conto, le lezioni di catechismo potrebbero sembrare a qualcuno troppo scolastiche. Non era così: con dolcezza e umanità, don Valentino ci conduceva nelle profondità elementari e sconvolgenti del messaggio cristiano senza mai dimenticare di aver davanti non un uditorio, ma delle persone, ognuna diversa dall’altra, ognuna unica.  Celava, dietro la sua discrezione, una cultura vastissima. Quando lo interrogavamo su argomenti storici o filosofici o teologici, rispondeva sempre esaurientemente. Apprendemmo con il tempo che le sue letture, che lui dichiarava succinte e insufficienti, andavano ben oltre una normale preparazione sacerdotale e spaziavano dai mistici bizantini a quelli buddhisti, ai classici latini e greci, alla filosofia e alla poesia. Avrebbe potuto trasformare gli incontri in altrettante occasioni culturali, eccitanti, brillanti. Avrebbe potuto esercitare su di noi un fascino straordinario, conducendoci a spasso nelle praterie vaste del suo sapere, facendoci divertire. Invece, dopo aver accontentato la nostra curiosità, ritornava al filo del suo discorso, al tema a lui più caro: il nocciolo della proposta cristiana. Cioè: all’esercizio della carità. Non ci permetteva mai di allontanarci troppo da questa “pietra d’inciampo”. “Imparare le persone della mia vita, vedere in loro l’invisibile, è la cosa che più mi conviene.” Perché, chiedevamo, sapendo già che ci sarebbe arrivata in testa un’altra tegola spirituale. “Non esistono al mondo due persone identiche. Ogni persona è una parola uscita dalla bocca di Dio, unica e irripetibile. Quindi ogni persona è preziosa. Possiede quel che a me, incompleto, manca. Se voglio dare un senso alla mia vita, se voglio crescere, non mi resta che acquisire questo qualcosa che mi manca. Per averlo non posso contare sul possesso materiale, cioè comprando la persona, né su quello psicologico, che si esercita con il fascino, ma sulla vera conoscenza. Questa la ottengo solo con l’attenzione. Attenzione all’altro, la via che conduce alla vita cristiana è tutta qui.” Saper vedere l’invisibile, commentava qualcuno. “Si, chiedendone la Grazia allo Spirito Santo.” Attenzione all’altro? Tutto qui?  “L’attenzione è sinonimo di carità. La quale non è l’elemosina, né il volontariato, né la gentilezza: tutte cose lodevoli, ma che non sostituiscono la carità. Quando ho prestato attenzione all’altro, ho veduto in lui l’invisibile, ho riconosciuto in lui quello che a me manca, non posso non volere il suo bene e non operare per esso. Perché solo cercando il bene dell’altro, che è un altro me stesso, faccio bene a me.” In lui non c’era traccia di quel fare obliquo e sfuggente che generalmente chiamiamo  “pretesco”. Lo spirito indipendente, lo sguardo chiaro, la schiena dritta, lo si poteva immaginare benissimo nei panni di un primario di chirurgia, di un professore universitario, di un filosofo, di un antico senatore romano. E la sua libertà di pensiero ne faceva un sacerdote, se è possibile, “laico”, il che non contraddiceva in niente il grande rispetto che aveva per la Chiesa, la solennità che mostrava nei riti, e l’affetto che professava per il Papa. Con lui si potevano affrontare gli argomenti più spinosi: la sessualità, l’ateismo, il diavolo, le malefatte della Chiesa, la libertà, l’eresia. “Nel sesso, che ci viene da Dio, non è insito nessun male,” sosteneva. “E’ quando tratto l’altro come un oggetto, o quando ne profano la sacralità, quando ci gioco, che insulto il dono della sessualità e me ne faccio infangare.” Ma come dev’essere la vita del cristiano riguardo al sesso, chiedevamo. La sua risposta non poteva includere schemi già conosciuti. “Dobbiamo mettere insieme i sensi con il cuore,” rispose infatti, “I sensi con il cuore.” E una volta in cui gli chiesi spiegazioni sul titolo “Ianua Coeli” attribuito alla Madonna, spiegò: “Le Iaunae Coeli sono due: la Porta attraverso cui noi saliamo in cielo è il Signore Gesù Cristo. Quella attraverso cui il Cielo è sceso sulla terra è la Madonna…” Un’altra volta, al termine di una riunione particolarmente animata, di quelle che a lui piacevano di più, in cui si era discusso sul senso dell’essere cristiani oggi, concluse: “Che poi, nella sua vera essenza, il Cristianesimo non è neppure una religione.” L’aveva detto quasi sottovoce, guardando per terra, come se non volesse scioccarci con quella enunciazione, davvero sorprendente da parte di un prete cattolico in una lezione di catechismo. E cosa è il cristianesimo, allora, chiesi. “E’ un incontro,” rispose sussurrando, “un personale, intimo, incontro tra me e Gesù”.  Ma i temi su cui la sua umanità si esprimeva pienamente erano quelli esistenziali della difficoltà di vivere: il dolore, la solitudine, la paura della morte. “Il giorno di Pentecoste lo Spirito Santo si divise in tante fiammelle quante erano le persone convenute, a segnare che lo Spirito era li, con ognuno di loro, tutto per ognuno di loro. Anche per noi ogni persona dev’essere come per lo Spirito Santo: unica e preziosa. Allo stesso tempo lo Spirito, dividendosi in tante fiammelle, è venuto a dirci che ognuno di noi è prezioso ai suoi occhi, che l’amore di Dio è tutto con noi, con ognuno di noi.” E anche: “Tra miliardi di volti, lo Spirito Santo riconosce il mio. Tra miliardi di voci, distingue la mia voce. Per questo, quando prego Dio, so di avere tutta la sua attenzione.” D’un tratto, dopo aver sentito questa semplice spiegazione, la mia fede nella solitudine della condizione umana si incrinò, e non tornò più la stessa. Bisognerebbe dire, per completezza, di don Valentino scrittore e poeta, ma i suoi scritti sono talmente eccelsi da scoraggiare anche una breve incursione. Rimando perciò alla lettura dei due libretti “Raccontare l’amore” e “Ti amo”, in attesa che venga alla luce un’edizione completa delle sue riflessioni spirituali e delle sue poesie. Attendiamo anche la trascrizione degli appunti delle lezioni di catechismo. C’era però un altro don Valentino, un don Valentino che, senza transigere dalle sue idee vigorose, mi accoglieva con tale affettuosa attenzione da rendermi desiderabile di accostarmi con frequenza al più ostico dei sacramenti cattolici: il don Valentino confessore. Con sensibilità mi lasciava parlare, si metteva in atteggiamento d’ascolto. Mi imparava. Poi, dopo un attimo di riflessione, mi dava la sua risposta, sempre sorprendente: non erano moniti, né enunciazioni di regole, né inviti generici al buon comportamento, ma tagli di lama nel velo che offuscava la mia vista: “mi piace pensare,” disse una volta in cui dovevo essergli sembrato ansioso e insoddisfatto, “Mi piace pensare che la vita non sia una corsa. Mi piace pensare che la vita sia ritmo.” E un’altra volta in cui, dissi, mi riusciva difficile riconoscere che le ragioni degli altri erano valide quanto le mie: “Non sono le ragioni dell’altro che ci conviene capire, è l’altro. Non dobbiamo approvare le sue ragioni: ma imparare la persona.”
Aveva un modo discreto di manifestare l’affetto, senza mai deflettere dall’aplomb richiesto dal rapporto sacerdote-fedele e, nel mio caso, confessore-fedele: quando lo andavo a salutare prima della messa sorrideva, sporgeva la mano, “Che piacere vederti,” diceva e poi, con l’aria di scusarsi per la povertà intellettuale della proposta: “Ci sarebbe la prima lettura da fare… ho già dato via l’epistola…”. Dopo il suo infarto, la scorsa estate, gli raccomandammo di riguardarsi, di dire messa senza la pesante pianeta, di chiedere un aiuto in curia. Ci sorrise, come se stessimo scherzando. Gli chiedemmo se non lo affaticassero gli incontri di catechismo, se per caso non volesse sospenderli per un po’. “No, no, protestò: questi incontri per me sono vita!” Sembrava addirittura indignato dall’idea. Ha continuato a prestare il suo servizio imperterrito, senza mancare un impegno, prodigandosi per la parrocchia, sempre attento e disponibile con tutti, non ultimi i numerosi immigrati che si radunavano tra i banchi della chiesa ogni sera in cerca di un aiuto. Lo hanno visto, una mattina, dire la messa delle sette con un velo di sudore sul viso. “Non è niente, un po’ di influenza,” ha risposto a chi si preoccupava. Alla messa delle dieci apparve arrossato, sofferente. “Dopo riposerò un poco,” ha sorriso. Al catechismo dei bambini, nel pomeriggio, aveva la febbre alta. La sera alle sette celebrò la sua ultima messa. Durante la notte, verso il mattino, Dio lo chiamò a sé. “Signore,” mi faceva sempre ripetere alla fine di ogni confessione, “Io sono piccolo. Dammi una pagina nuova: io ricomincio.”

L.S. Verona, 20 novembre 2012

Don Valentino Guglielmi è stato ordinato sacerdote il 28 giugno 1964. Vicario Parrocchiale a Garda (1964-1966)Insegnante al seminario di San Massimo e collaboratore nella parrocchia di San Pancrazio in Verona. Licenza in teologia dogmatica a Venegono nel 1968. Docente allo studio teologico san Zeno. Licenza in teologia liturgica al Pontificio istituto Liturgico Sant'Anselmo di Roma. Confessore nella parrocchia di San Luca in Verona. Parroco a Marzana di Valpantena (1981-1988), a Zevio (1988-1994), a San Pietro di Lavagno (1994-2003), a sant'Eufemia in Verona (2003-2012). Pochi giorni dopo l'ordinazione chiese di entrare a far parte della Società Sacerdotale della Santa Croce, associazione di sacerdoti diocesani unita alla Prelatura dell'Opus Dei, da cui ricevono aiuto spirituale per santificarsi nel loro ministero uniti al loro presbiterio e con piena obbedienza al loro Vescovo diocesano.

(http://donandreamardegan.blogspot.it)
Postato da: Carla Azzurro