STORIE DI VITA - Mondo Voc novembre 2013 Torna al sommario
LE STORIE DI MARIANELA GARCÍA VILLAS E PADRE RAGHEED GANNI
Fino all’ultimo respiro
La storia – nota - di Marianela García Villas, piccola grande donna del Salvador che, come il connazionale Mons. Oscar Romero, ha dato la vita per il suo popolo, per la giustizia e per la pace. E la storia - meno nota - di padre Ragheed Ganni, sacerdote cattolico caldeo, ucciso in Iraq a Mosul, nel 2007, per non aver rinunciato a celebrare l’Eucaristia domenicale, per aver voluto condividere fino all’ultimo, con il suo popolo, il Pane della Vita.
di Michele Pignatale
Due ricordi che porto nel cuore, custoditi insieme ad altri in uno scrigno particolare che fanno compagnia durante lo scorrere di questo tempo. Due persone che ho conosciuto in tre periodi della mia vita e che hanno rappresentato una linfa vitale per la mia fede e la mia vita. Scrivere di loro è come dare luce alle vicende di popoli che hanno sofferto e soffrono ancora la mancanza di pace, di giustizia e di rispetto della persona umana. Lo faccio tenendo a bada con fatica i sentimenti che il ricordo fa lievitare e che, come una spina, pungono la parte più intima della vita.
Una piccola donna del Salvador
Era il marzo del 1981 e mi trovavo nella provincia di Padova per un incontro missionario di giovani. Avevamo stabilito un certo programma per la serata. Durante l’incontro del pomeriggio un giovane del luogo ci fa sapere che a Padova c’è un incontro con una giovane avvocato del Salvador, impegnata in un giro europeo per far conoscere le tristi vicende del popolo salvadoregno, si chiamava Marianela García Villas. Avevo letto alcuni articoli su di lei e mi attraeva il suo coraggio nel rivendicare il rispetto dei diritti umani per il suo popolo. Con i giovani decidemmo di partecipare anche noi a quell’incontro. Una donna minuta, semplice, arringava la platea con una passione mai vista, raccontando situazioni e fatti del suo popolo.
La storia di un intero popolo
Marianela aveva 33 anni, era di una famiglia borghese, iscritta all’Azione Cattolica universitaria, deputata della Democrazia Cristiana salvadoregna, lasciò il Parlamento per divergenze politiche e, due anni dopo, fu eletta Presidente della Commissione per i Diritti Umani, organismo non governativo che offriva sostegno legale alle vittime del regime. L’attività presso
Durante l’incontro di Padova ci raccontò che dopo quella notte drammatica andò subito a cercare il conforto dal suo Arcivescovo Romero che ascoltandola e guardando il suo stato di salute si mise a piangere chiedendole di pacificarsi, di perdonare, senza rassegnarsi.
“La mia storia – raccontò Marianela – è parte della storia di tutto il popolo, quello che è successo a me è successo a migliaia e migliaia di uomini e donne in tutto il Paese. Il mio è un caso comune”.
Neppure l’assassinio di Mons. Romero, avvenuto il 24 marzo 1980, la ferma. Cresce ancora di più il suo impegno, anche a livello internazionale, per denunciare le sparizioni, le esecuzioni sommarie, le stragi sempre più frequenti, per identificare il corpo delle vittime e darne notizia ai familiari. Sempre più madri si presentavano alla Commissione per avere notizie dei figli scomparsi. Tante madri che “come
Martiri della Pace
Con questo stesso capo d’accusa il 13 marzo 1983, mentre viaggiava nel Paese in zone di guerra per provare l’uso di armi chimiche da parte dell’esercito, venne catturata, torturata ed uccisa, quindi abbandonata sulla strada.
Marianela, profondamente pacifista, amava definirsi una piccola donna del Salvador, che come altre aveva legato il proprio destino a quello del suo popolo.
“Così muore, con grandezza, la gente comune nel Salvador: dandosi il cambio, senza pretese e senza fanfare, nel compito lasciato interrotto, aspettando il proprio turno… perché la gente comune sa vivere, a volte senza rendersene conto, dimensioni di grandezza che nessuna epopea si ricorderà mai di celebrare”.
Purtroppo il silenzio è caduto sul sacrificio di questa donna universale.
Una presenza di pace
Era il 2003 e Padre Ragheed Ganni, sacerdote cattolico caldeo, lasciava l’Italia dopo sette anni di studi presso l’Angelicum, l’Università Pontificia San Tommaso d’Aquino, conseguendo la licenza in teologia ecumenica. Ci eravamo conosciuti in un seminario di studi sull’ecumenismo e capitammo nello stesso gruppo di studio. È in quell’occasione che ascoltai la sua testimonianza, apprezzai la sua gioiosa presenza nonostante l’inquietudine e l’angoscia che portava dentro per le sorti della sua comunità cristiana. Diverse altre volte avemmo l’occasione di incontrarci; una volta presso
Lo assicurai che il mio ricordo non sarebbe venuto meno e scherzosamente gli dissi che nel peggiore dei casi avrebbe trovato posto nel calendario dei martiri degli ultimi tempi, che fin dal 1992 avevo cominciato a curare. Scoppiò in una risata e ci abbracciammo.
Il sacrificio della vita
Il 3 giugno 2007, domenica di Pentecoste, dopo che aveva celebrato messa nella sua parrocchia dedicata allo Spirito Santo, a Mosul, padre Ragheed è stato ucciso a sangue freddo, insieme con tre suoi suddiaconi e il suo corpo lasciato in strada per una intera giornata, nell’attesa che la polizia disinnescasse gli ordigni che gli assassini avevano posto intorno ai corpi perché non fossero rimossi e perché la gente, impotente, potesse capire la lezione.
La notizia mi sconvolse e ripensai alle sue corrispondenze per l’agenzia Asia News, in cui raccontava le paure e le speranze della sua gente, abituata ogni giorno a vedere in faccia la morte. La stessa morte che lui ha affrontato a soli 35 anni.
Tante domande si rincorrevano nella mente sulle precauzioni che avrebbe potuto prendere. Forse avrebbe dovuto rinunciare a celebrare per non dare riferimenti ai suoi potenziali assassini.
Ma le sue parole, contenute in una testimonianza resa al Congresso eucaristico di Bari nel
Una testimonianza, la sua, di una fede vissuta con gioia ed entusiasmo anche dopo ripetute minacce ed attentati subiti fin dal suo arrivo nella parrocchia. Minacce che non hanno mai ucciso la sua convinzione che la pace è frutto dello Spirito ed è la sola possibilità per costruire una convivenza senza violenza.
La sua morte, sono convinto, ha un disegno che va oltre la nostra ragione, i cui frutti un giorno si potranno assaporare. Oggi posso sentirlo vicino nella preghiera fatta davanti alla sua stola sacerdotale, conservata nella Basilica di S. Bartolomeo sull’Isola Tiberina.
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