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LA PROVA DELLA VOCAZIONE
Giuditta, fede e saggezza femminile
Giuditta è nota soprattutto per il coraggio anche fisico (virile, si diceva un tempo), mostrato nella vicenda di Oloferne, al quale questa donna staccò la testa; è forse meno nota per la sapienza spirituale ed in particolare per quel senso di Dio che ne fa una delle donne più interessanti dell’Antico Testamento.
di Amedeo Cencini
L’assedio e il compromesso
La storia ci racconta che Israele era assediato a Betulia dal re Oloferne, il quale – senza bisogno di fare una guerra e spargere sangue - intendeva prostrare la resistenza del popolo tagliandogli le vie di accesso agli approvvigionamenti idrici. Di qui la reazione d’Israele contro i propri capi, con il solito cliché delle lamentazioni e arrabbiature nei confronti dell’autorità (ampiamente collaudato nel deserto contro Mosè). Se ai tempi dell’esodo dall’Egitto lo slogan era: meglio schiavi in Egitto (con le pentole piene di carne, aglio e porri) che morire di stenti in questo schifo di deserto, ora il discendente di quei brontoloni protestava così: meglio schiavi del re Oloferne, che morti di sete. Dunque, sempre la stessa musica: gli israeliti chiedono sì aiuto a Dio, ma consegnandosi al nemico fanno una scelta non solo di tipo politico, ma religioso. Come schiavi, infatti, essi sanno che saranno obbligati ad adorare il dio di Oloferne, tradendo il rapporto che li lega al Dio dei loro padri. Importante, insomma, per loro è salvar la pellaccia….
Ecco allora la reazione singolare di Ozia, il capo della città: “resistiamo ancora 5 giorni e in questo tempo il Signore rivolgerà di nuovo la sua misericordia su di noi… Ma se proprio passeranno questi giorni e non ci arriverà alcun aiuto, farò come avete detto voi” (Gd 7,30-31). Una reazione accomodante: da un lato va incontro alle rimostranze della gente, dall’altro rispetta la fede nel Signore salvatore del suo popolo. In realtà è il solito compromesso, ambiguo e artificioso.
Tentazione di sempre: ricattare Dio
Interviene allora Giuditta, e la sua parola mette a nudo la pretesa dell’atteggiamento d’Israele, ma anche dei suoi capi. E lo fa con una domanda ironica (“Ma chi vi credete d’essere?…”), e senza temere di prenderli in giro e sfotterli: “pretendete di capire l’agire del Signore, ma non ci capirete niente… Se non capite il cuore dell’uomo come potete presumere di scrutare i pensieri e i disegni del Signore?”.
Quale era stata, in realtà, la pretesa del popolo? Tentare Dio, metterlo alla prova. Ecco il peccato antico, già commesso dai padri d’Israele lungo il deserto, così grave da ricordare anche il posto (a Massa e a Meriba), quando dubitarono, anche allora, della protezione del Signore. Così a Betulia, così ai giorni nostri… è la tentazione classica, che pretende di strumentalizzare Dio, suggerirgli cosa deve fare, anzi, addirittura porgli dei limiti di tempo, quasi sfidarlo e minacciarlo, presumendo di mettergli paura, in una sorta d’infantile ricatto da parte del credente risentito, perché Dio non l’avrebbe soccorso come lui pretendeva.
Ho la netta sensazione che questa pretesa sia presente un po’ in tutti rendendoci meno credenti, e che la grande maggioranza degli ex-credenti siano tali perché la pretesa non è stata appagata.
“Così ha fatto con i nostri padri…”
Giuditta dà un’autentica lezione di storia della salvezza ai capi d’Israele (sacerdoti compresi) e spiega che, al contrario, spetta a Dio sottoporre l’uomo alla prova; questo è proprio l’agire divino, lo stile inconfondibile di Dio. Così è stato nella storia, basta ricordarsi d’Abramo, d’Isacco, di Giacobbe…, messi alla prova per saggiare il cuore e purificarlo, per renderli sempre più liberi di lasciarsi benvolere dall’Eterno e amare alla sua maniera, di lasciarsi chiamare dalla sua voce e accoglierla.
La provocazione di Giuditta è ineccepibile sul piano teologico, e mi fa venire in mente quanto Von Balthasar ripeteva spesso: non è l’uomo a fare esperienza di Dio, ma è Dio che fa esperienza dell’uomo, al punto che nelle Scritture sante non v’è traccia dell’uomo che cerca Dio, ma semmai di Dio che fin dall’inizio è sulle strade dell’uomo, per cercarlo e svelarsi a lui.
Ne viene, come conseguenza, che molte di quelle che noi chiamiamo, con certa sufficienza enfatica, “esperienze di Dio”, sono solo illusioni su Dio, mentali o sentimentali, o espressione della nostra pretesa di disegnarci un dio come lo vogliamo noi.
La prova che viene da Dio, all’opposto, è lo strumento di cui il Creatore si serve per scuotere la creatura dalla sua tiepidezza, per impedirle di accontentarsi di amare di meno, per provocarla verso ideali alti, perché non si lasci rincitrullire dalla mediocrità, per chiederle qualcosa che l’uomo non avrebbe mai avuto il coraggio di chiedere a se stesso… Chissà quante volte il Signore è passato nella nostra vita o ci ha visitati con la prova e abbiamo reagito come Israele o come Ozia…
La prova della vocazione
In tal senso possiamo dire che la vocazione è una prova. Lo è perché viene da Dio, perché pensata da lui apposta per la nostra vita, perché ci chiede qualcosa che forse non rientrava nei nostri progetti, perché è qualcosa che ci scuote, ci provoca, ci chiede il massimo…
E non lo è solo al momento iniziale, per quella rinuncia che chiede all’inizio del cammino vocazionale, ma perché ogni giorno, ogni mattino l’Eternamente chiamante ci chiama e la sua chiamata contiene regolarmente una prova.
E se ci costerà qualcosa, in quel momento ricordiamo quanto Giuditta rammentava ai suoi: “ringraziamo il Signore, nostro Dio, che ci mette alla prova, come ha già fatto con i nostri padri” (8,25).
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