DIVERSO PARERE - Mondo Voc gennaio 2011 Torna al sommario
I giovani hanno bisogno dei miti come dell’aria.
Senza miti non si è veramente giovani
Non avere miti è un segnale preoccupante come averne troppi. Da una parte c’è il rischio dell’indifferenza, dall’altro quello dell’esaltazione. Un mito – che sia uno sportivo, una squadra, un cantante, una band, un attore, un musicista – fa da esempio, indica una strada, scalda il cuore. Tuttavia, il mito è bello e fa compagnia purché stia al suo posto.
di Aldo Maria Valli
“Sei un mito”, “sei mitico”, “che mito!”. Ogni volta che pronunciamo queste parole parliamo di qualcuno o qualcosa verso cui nutriamo una passione sconfinata ma che, allo stesso tempo, ci appare irraggiungibile. Il mito ci trasporta in una dimensione lontana, da sogno. Fa parte del nostro immaginario e ci nutre di sentimenti forti, ma è un po’ fuori portata.
I giovani hanno bisogno dei miti come dell’aria. Senza miti non si è veramente giovani. Un mito – che sia uno sportivo, una squadra, un cantante, una band, un attore, un musicista – fa da esempio, indica una strada, scalda il cuore. È vero, rispetto a noi sta in un altro mondo, però se non ci fosse il nostro mondo sarebbe più povero e noi ci sentiremmo più miseri e soli.
Non avere miti è un segnale preoccupante come averne troppi. Da una parte c’è il rischio dell’indifferenza, dall’altro quello dell’esaltazione. E siccome, com’è noto, gli estremi si toccano, nell’un caso come nell’altro il risultato è l’infelicità. Il mito è bello e fa compagnia purché stia al suo posto. Se pretende di conquistare la nostra anima diventa inquietante. Se dal mondo dell’immaginario fa irruzione in quello della realtà sostituendosi ad essa, ecco che entriamo nel campo del disturbo psico-patologico. Il che è decisamente da sconsigliare.
I miei sei figli hanno avuto e hanno i loro bravi miti. La figlia più grande, oggi venticinquenne, da preadolescente ebbe il mito dei Backstreet Boys, cinque ragazzotti canterini e bellocci. Adesso, quando ci pensa, ride e si chiede come sia stato possibile, ma c’è un tempo per ogni cosa!
Giovanni, ventitre anni, quando ne aveva dieci nutrì una vera passione per il centravanti dell’Inter Ivan Zamorano, un cileno dal volto indio che portava sulle spalle il numero diciotto ma con un segno “più” aggiunto con due cerotti fra l’uno e l’otto per far capire che lui si sentiva il numero nove e dunque il vero centravanti. A quell’epoca Giovannino giocava a calcio ed io, da padre interista, ammetto di aver avuto un certo luogo nel favorire in lui lo sviluppo di taluni miti nerazzurri.
Silvia, la terzogenita, diciassette anni, ha il mito di Jane Austen. Ho l’impressione che spesso si immedesimi un po’ in lei. Fra Jane e Silvia ci sono di mezzo più di due secoli, ma lo spirito romantico non dipende dai contesti storici e dalle culture: è una disposizione del cuore, e allora ben venga il mito di una scrittrice con la cuffietta sulla testa e gli abiti stile impero.
Laura, undici anni, apparentemente non manifesta predilezioni particolari per situazioni o personaggi. Quando le ho chiesto se ha qualche mito, mi ha risposto: “Che vuol dire?”. Poi ci ha pensato un po’ su e ha detto con fare sicuro: “No!”. Forse scatterà qualche scintilla più avanti, chissà.
Nemmeno le gemelle Anna e Paola, apparentemente, hanno veri e propri miti. Ma non so se devo fidarmi delle loro dichiarazioni. Probabilmente qualche mito c’è, ma quella è l’età dei segreti!
Io da ragazzo avevo il mito di Giacinto Facchetti, il terzino dell’Inter che faceva anche gol. E poi mi piaceva moltissimo un giocatore di basket del Simmenthal, l’americano Bill Bradley, che giocava con la squadra milanese le partite di Coppa dei Campioni e per il resto del tempo studiava a Oxford. Un tipo tosto, come dimostra il fatto che, una volta tornato negli Usa e lasciato il basket, è diventato senatore. Un altro mio mito fu Indro Montanelli, che andai a trovare per dirgli che volevo fare il giornalista. Avevo diciotto anni e lui mi consigliò: “Almeno finisci gli studi”. Gli sono grato ancora oggi per avermi preso come correttore di bozze. Da lì è incominciata la mia gavetta.
Sono entrato nel campo dei ricordi ed è bene che ne esca subito. Oggi di miti non ne ho più, ma mi riconosco un po’ in Homer Simpson. Quando esclama “Mitico!” lo trovo irresistibile. Mitico, direi.
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