29 novembre 2013
A colloquio con il direttore del museo dei martiri di Nagasaki.
Quando padre Bergoglio mi disse: Vai
«All’inizio quando chiesi di essere mandato in Giappone ero convinto che Bergoglio avrebbe detto di no» ricorda sorridendo. De Luca è tra i pochi gesuiti che abbiamo incontrato in Giappone a indossare il colletto bianco (anche se ammette di indossarlo raramente): l’aspetto classico da prete intimidisce i giapponesi, e i gesuiti, con grande discernimento, hanno sempre preferito adattarsi ai costumi della cultura locale. Perché mai Bergoglio avrebbe dovuto dire di no?
All’epoca era il mio direttore spirituale e una volta mi disse: «Renzo, hai chiesto di andare in Giappone?». Io dissi di sì. E lui replicò: «Hai idea di quello che ti aspetta?». Pensavo non fosse d’accordo. Ma il suo era una sorta di test.
In che senso?
Una delle sue lezioni più importanti fu quella di abituarmi a chiedermi sempre il perché delle mie decisioni. Una sorta di esercizio per non prendere mai le cose superficialmente. Una volta, ad esempio, mi mandarono negli Stati Uniti per imparare l’inglese e persi quindi due mesi di lezioni. Quando tornai cercai di recuperare. Ma avevo anche il ritiro spirituale che gli altri invece avevano fatto. Allora andai da Bergoglio a chiedere un consiglio. Mi sembrava naturale che dovessi scegliere una cosa tra le due: o le lezioni o il ritiro. Lui mi disse solamente: pensa a risolvere il problema da te. Ma io inizialmente non capivo se intendesse dire salta il ritiro per studiare, oppure salta le classi per fare il ritiro. Ritornai da lui con il dubbio, e chiesi esplicitamente: «Allora posso saltare il ritiro?». «Non ho detto questo. Ho detto solo che ci devi pensare tu». Intendeva che dovevo trovare il modo di rispondere a tutti e due gli impegni. Cosa che, in quel momento, mi sembrava abbastanza assurda. Mi sentivo infatti giustificato a saltare il ritiro per una volta. Alla fine invece, grazie alle sue indicazioni, trovai il modo per fare tutte e due le cose. E capii che dovevo cominciare ad assumermi la responsabilità dei miei atti.
Cosa le disse prima di partire per il Giappone?
Mi disse che al tempo della sua generazione anche se lo avessero desiderato non sarebbero mai potuti partire in missione all’estero, non c’era proprio possibilità. E noi che invece avevamo questa opportunità dovevamo essere molto felici per questo. Sembrano parole banali, ma ancora oggi le ricordo: mi diedero molta forza per affrontare le sfide di una missione così impegnativa. Quando poi venne eletto Papa e lessi che anche lui sarebbe voluto venire in Giappone da missionario, la cosa mi colpì molto. Ero un fatto che ignoravo completamente.
Cos’altro ricorda della sua esperienza nel Collegio Maximo di San Miguel?
Studiavamo dal lunedi al venerdì. Il sabato e la domenica invece, su iniziativa di Bergoglio, andavamo nei quartieri poveri. Faceva parte della nostra formazione. Una formazione non solo teorica ma anche pratica. Per quello che ne so, nessun altro istituto lo faceva. A quel tempo si aspettava che la gente si presentasse di sua spontanea volontà in chiesa, non la si andava a cercare. Noi invece bussavamo proprio alle porte a dire: guardate, c’è il catechismo, mandateci i ragazzi. Era anche un modo per non lasciarli in strada. Fu una rivoluzione copernicana. Bussavamo alla porta di gente che non aveva neppure i vestiti addosso, e bisognava avere una bella faccia tosta per invitarli in chiesa mentre era evidente che avevano giusto il minimo per sfamarsi. Eppure la gente rispondeva alla nostra chiamata. All’epoca in quel quartiere, San Alonso, non c’era neppure una chiesa: in poco tempo non solo la costruimmo, ma centinaia di persone cominciarono a prendere parte alla messa ogni domenica. In pochi anni quello che era un centro degradato e senza alcun collante sociale divenne una comunità vivace e compatta.
In uno dei suoi primi discorsi, Papa Francesco esortò a uscire dal perimetro della parrocchia per andare a bussare alle case nelle periferie. Dunque quello sperimentato al San Miguel è stato una sorta di prototipo dell’impegno pastorale che oggi Bergoglio richiede ai sacerdoti?
È grazie a quel tipo di insegnamento se oggi mi trovo qui, lontanissimo dalla mia terra natale. In fondo il Kyushu, quest’isola all’estremo ovest del Giappone, a mille e trecento chilometri da Tokyo, rappresenta non solo una periferia geografica ma anche esistenziale del Giappone: a Fukuoka (la città più popolosa del Kyushu) ad esempio c’è un tasso di criminalità tra i più alti di tutto il Paese, qui si trova il covo della mafia giapponese, la famigerata Yakuza. Penso che stare qui sia un modo per continuare la missione che Bergoglio mi ha ispirato. E poi c’è anche un legame ideale che io vedo tra Papa Francesco e il primo missionario gesuita qui in Giappone, cioè Francesco Saverio.
Quale?
Francesco Saverio acconsentì a che un giapponese di nome Lorenzo entrasse a far parte della Compagnia del Gesù. Il fatto che fosse giapponese era di per sé un gesto rivoluzionario. Ma questo Lorenzo era addirittura vecchio e cieco e non conosceva lo spagnolo. Un’assurdità per l’epoca. Ma ciò che interessava a Saverio era lo spirito di quella persona — che era un grande oratore — non le sue condizioni materiali, insomma l’apparenza. Ecco, credo che Bergoglio abbia lo stesso approccio verso il prossimo. Francesco Saverio andò contro le convenzioni della Compagnia del Gesù di allora, allo stesso modo Bergoglio riesce a portare nella Chiesa cambiamenti inaspettati.
Bergoglio è venuto mai a trovarla qui in Giappone?
Sì, una volta. Era il 1987. Da allora sono passati ventisei anni. Spero di rivederlo nuovamente. Magari proprio qui.
(da Nagasaki CRISTIAN MARTINI GRIMALD su www.osservatoreromano.va)