croce_preti31 maggio 2013

Tre nuovi presbiteri per la Chiesa mantovana.

Dio torna a casa!

Domenica 26 maggio alle 17.30 in Duomo, il Vescovo con il presbiterio diocesano impone le mani a tre giovani diaconi per l’ordinazione sacerdotale: don Nicola Ballarini, don Alessio Menegardo e don Gianni Nobis. A questi tre giovani con i quali ho condiviso un po’ di strada presento una domanda: che fare se la città se n’è andata per i fatti suoi? Stiamo vivendo, come chiesa e parrocchie, quella sensazione di chi si sveglia di soprassalto da un lungo sonno nel tardo mattino, specialmente a un anno dal terremoto che ha chiuso tante chiese. Ti accorgi che la gente sta trafficando per i fatti suoi, che ha saputo o voluto fare a meno di te e che tu non sei più protagonista delle vicende di quella giornata. Alla parrocchia è successa la stessa cosa. Svegliatasi da un lungo sonno, si è accorta che la città, magari compagna per lunghissimo tempo, se n’è andata per i fatti suoi, seguendo logiche sue. Non è difficile rendersi conto che il momento attuale è di estrema delicatezza. Si moltiplicano i non credenti. Cresce il numero dei non praticanti di lungo corso. Aumenta a vista d’occhio lo spessore dell’indifferenza in diversi ambiti. Si dilata la fascia di coloro che non hanno più alcun rapporto con la Chiesa (convivenze, separazioni, ecc.) e nel contempo, è più avvertibile il ridotto spessore, di gioia, di fierezza, di speranza, in una parola di convinzione in chi è di casa. Serpeggiano forme di ambigua religiosità e devozionismi individualistici o, al contrario una lettura della Chiesa fatta di soli servizi o presenza sociale. Le persone per le quali la parrocchia non dice più nulla, neppure sul piano dei comportamenti morali, sono tante. Sono segnali di un esodo che devono aiutarci ad abbandonare buona parte degli schemi della nostra prevalente pastorale residenziale. Si impone urgenza, cambi radicali di mentalità, non tamponamenti passeggeri. Oggi la gente che nella nostra parrocchia va a messa specialmente in questo anno del terremoto si attesta attorno al 5%. Al 90% che non risponde alla chiamata che cosa annunciamo? La nostra è una parrocchia ancora troppo ripiegata su se stessa o si curva con più slancio sul mondo esterno? Quale reale richiamo a Dio offriamo alla città, specialmente a un anno dal terremoto? Si parla continuamente di comunità adulta, mentre impegniamo uno spiegamento di energie per bambini e per ragazzi e ci accontentiamo di interventi disarticolati e frammentari per le altre età? L’integrazione fra fede e vita si limita a contenere i comportamenti morali senza sporgersi quasi mai dai balconi dell’area parrocchiale. Perché a fatica si coniuga la preghiera con la vita, la festa con la ferialità, l’incenso con la piazza, la liturgia con la giustizia. Diventa indispensabile interrogarsi sulle ragioni della nostra latitanza cristiana nelle aree in cui si giocano la qualità della vita e le autentiche domande. Il vero problema non è tanto chiedersi se Suzzara sia terra di missione. Ogni terra, anche la più santa, lo è. Provochiamo sani sussulti, capaci di mettere in crisi la nostra rassegnazione! Si respira una stanchezza, non si cammina, o per lo meno non si cammina abbastanza. Troppi sono i discorsi tendenti al cambiamento, senza però una reale voglia, capacità e condivisione di tradurli in intuizioni, ipotesi e progetti pastorali. Anche se in questi mesi c’è in cantiere un apprezzabile progetto proposto dal consiglio pastorale di UP per i genitori che hanno battezzato i loro bambini. E poi c’è la frammentazione: non si cammina sempre insieme. Non ci sentiamo strumenti della coralità di un’orchestra. Diamo prova di indubbia bravura personale, di superlavoro, ma non di abbraccio collettivo. Ogni volta che si impoverisce l’avverbio insieme, si annulla anche il verbo camminare. E’ importante che le nostre comunità parrocchiali possano qualificarsi come comunità di speranza. La gente deve capire che siamo non tanto dei consumatori di riti o di qualche momento associativo, ma persone unite che progettano un futuro diverso. E’ qui che ci giochiamo la nostra credibilità di cristiani. Non è un mistero per nessuno. La gente che ha rotto i ponti con la Chiesa (in particolare con l’oratorio) orami porta un nome preciso: moltitudine. Perché noi cristiani ce ne stiamo nel cenacolo, e nell’attesa ingenua di ritorni spontanei ci affanniamo in problemi di conservazione dell’esistente? La parrocchia non può essere concepita come il luogo in cui soltanto alcuni si trovano bene, dove magari ci si dimentica dei problemi della vita. Perché invece, non diventa il quartier generale dove si vive e si allarga la fede, la speranza, il contagio, le domande, l’amore, lo stimarsi, il lavorare insieme, l’accoglienza, i progetti? Il Cardinal Carlo Maria Martini in un’omelia del 1999 citava una frase di Papa Giovanni Paolo II pronunciata durante l’omelia della sua consacrazione episcopale: “L’episcopato come sacramento della strada”. Credo di poter dire ai tre giovani sacerdoti che l’ordinazione sacerdotale oggi è sacramento della strada. Ma come potrete veramente suscitare fascino e stupore fra la gente di oggi con la vostra preghiera, la vostra vita povera, la vostra sapienza evangelica? Vi rispondono i grandi Padri della chiesa: da Giovanni Crisostomo, Sant’Ambrogio fino a Paolo VI e Papa Francesco: dovete lasciarvi affascinare da Cristo. Lo Spirito Santo colmi il vostro cuore del fascino di Cristo. E questo fascino irradiatelo instancabilmente e con premura evangelica. Carissimi giovani, questo è il senso della vostra, della nostra vita di pastori, è la nostra gioia e la nostra gloria. Una doppia inquietudine: una inquietudine a cercare Dio sinceramente, conoscerlo, riconoscerlo, ed amarlo; e c’è una inquietudine missionaria tipica di chi non può tacere né può attendere, deve andare.

(Mons.Egidio Faglioni su www.diocesidimantova.it)
Postato da: Emilia Flocchini