ORIENTARSI - Mondo Voc aprile 2014                                                 Torna al sommario

 

 

DALLA LETTERA DI GEREMIA

Baruc, diaspora e idoli

Il rischio dell’esilio da se stessi


Un passo della Bibbia poco conosciuto si presta a sorprendenti attualizzazioni che mostrano come la parola di Dio sia in grado di interpretare situazioni che appartengono al nostro vissuto. Una Parola che insegna, ad esempio, a non intraprendere un esodo all’incontrario, per non ritrovarsi esiliati da se stessi, e dispersi nei deserti della vita, vuoti di significato, ma pieni di idoli ingannevoli.

 

di Amedeo Cencini


baruc_profeta

 

Non sappiamo granché di questo autore biblico, per alcuni segretario fedele di Geremia, per altri modello dello scriba, il cui nome qualcuno ha usato come pseudonimo per proporre il proprio messaggio, nel tempo della diaspora.


Del libretto di Baruc (solo 6 capitoli) prenderò in considerazione solo la parte finale (“lettera di Geremia”), in cui il profeta raccomanda agli esiliati la fede nel Dio unico d’Israele, contrapposta alla stupida adorazione degli idoli.

 


Ius desperati

Cosa ha da dire un simile testo a noi, così lontani nel tempo e diversi nella sensibilità dai suoi immediati destinatari? Ha molto da dire se pensiamo che è rivolto a chi sta vivendo un’esperienza drammatica, come quella dell’esilio e della diaspora conseguente.


Ci viene spontaneo associare tali termini alla situazione, davvero drammatica, di tanti immigrati che giungono disperati – quelli che ce la fanno - in terre che pensano più civili e sognano accoglienti. Per poi restare amaramente delusi da chi sembra riconoscere loro solo lo status di “disperati”, una specie di “ius desperati”. Che li induce a fuggire quanto prima, continuando esilio e diaspora.


Non voglio esser banale e semplicista, so quanto complesso e di difficile soluzione sia tale problema, ma non possiamo non lasciarcene severamente interrogare. Perché potrebbe farci scoprire un’altra diaspora, non peggiore di quella di chi fugge dalla sua terra invivibile, cioè la nostra diaspora, come un esilio da noi stessi e dai nostri ideali, dal coraggio di una certa radicalità, dalla paura di essere credenti coerenti

 


Diaspora vocazionale

barucMe l’ha fatto pensare la notizia delle 3 Suore dei Poveri, che da alcuni giorni vivono a Lampedusa, lì inviate da una congregazione che ha deciso di creare una comunità nell’isola, per essere segno concreto di accoglienza per quei disperati. In qualche modo provocate dall’appello di papa Francesco e in reazione alla globalizzazione dell’indifferenza.


Certamente non risolveranno i problemi legati all’immigrazione e nemmeno so se questo gesto avrà per loro una ricaduta vocazionale positiva, come qualcuno pensa. Non è questo il punto. Ma di una cosa sono e voglio essere certo: tale scelta è come un ritorno di queste suore alla loro identità e vocazione, alla terra del loro cuore consacrato.


E diventa un segno per tutti noi in diaspora, come una provocazione a fare la stessa cosa, pur se in altri ambiti, quelli dei rispettivi nostri carismi o delle nostre specifiche identità vocazionali.


C’è una diaspora in atto, infatti, tanto più grave quanto meno riconosciuta. Come un esilio all’incontrario, che invece di disperderci fisicamente per annunciare il vangelo, sembra toglierci esattamente la paura di andare, di tentare vie diverse, di rischiare tutto ciò che sa di nuova evangelizzazione: contatti inediti, periferie sconosciute, contesti difficili … Una diaspora strana e paradossale, a causa della quale stiamo tutti lì a pestarci i piedi, nei soliti posti, a ripeterci senza alcuna creatività, a consolarci tra noi o a lamentarci dei pochi risultati, a prendercela col mondo secolarizzato e puntare il dito sui giovani - ti pareva! - non più generosi come un tempo e … in fuga da se stessi, anche loro in diaspora.

 


Idoli

Baruc_1Baruc è famoso per la sua invettiva contro gli idoli, colma di ironia tagliente. Era la tentazione classica per un popolo in esilio quella di lasciarsi indurre a tradire la fede dei padri per adorare idoli stranieri. Ma gli idoli, dice il profeta, non possono salvare né fare alcunché, anzi sono persino insensibili e inutili, inerti e impotenti, solo apparenza e niente sostanza, come spaventapasseri in un campo di cetrioli o cadavere gettato nelle tenebre (cf Bar 6,69-70).


Di nuovo, che può voler dire a noi questo modo di contrapporre Dio agli idoli, così descritti? Magari siamo tentati di pensare che la cosa non ci riguarda granché, noi che ci sentiamo figli del Padre celeste, puri di ogni idolatria! Ma chi è l’idolo?


L’idolo è prodotto dell’uomo, da lui posto in essere, esattamente per fargli dire o fare quello che l’uomo stesso vuole. Dio non sempre ti accontenta, infatti, né soddisfa ogni volta le tue richieste. L’idolo invece sì. È sempre d’accordo con te, ti dà regolarmente ragione. Dio è mistero spesso incomprensibile e invisibile nella sua trascendenza, mentre l’idolo è ben definibile e riconoscibile. Ma se Dio, il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe ode le grida del suo popolo e si commuove per lui, l’idolo ha i sensi ma non vede e non ode nulla, né ha un cuore per piangere. E così chi ci crede.

 


Tenere la schiena dritta

Di solito chi non crede in Dio si riempie la vita di idoli o se il cielo è vuoto di Dio la terra è colma di idoli. Ma non è impossibile tenere insieme le due cose o contaminare la propria fede nel Dio di Gesù con atteggiamenti idolatrici, soggettivi e interessati, manipolatori e presuntuosi, quasi trattando Dio come un idolo. Oppure, per tornare a quella diaspora all’incontrario che ci blocca e paralizza, è possibile, eccome! Riempirci la vita di idoli: l’idolo delle nostre idee e fissazioni varie, della nostra presunzione di perfezione; l’idolo delle nostre comodità e privilegi, della carriera e del successo, a volte – ahimé – del denaro e del potere, del sesso e del suo strapotere, con gli esiti drammatici che sappiamo.

Quando la fede è contaminata dall’idolatria, il credente si inchina in modo stupido e pericoloso, come la nave di fronte all’isola, dinanzi all’idolo stesso. Diventandogli tristemente conforme.


Le tre suore a Lampedusa, e chi ha il loro coraggio, senz’altro non corrono questo rischio!

 

 


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