ORIENTARSI - Mondo Voc marzo 2014 Torna al sommario
UN TESTO “DOLOROSO” PER TROVARE VIE NUOVE
Lamentazioni vocazionali
Un’inedita associazione
Nella nostra veloce ma puntuale rassegna vocazionale biblica, ci soffermiamo anche sul libro delle Lamentazioni, per quanto possa sembrare singolare e inedita l’associazione tra vocazione e lamentazione.
di Amedeo Cencini
Tale libro, del tempo dell’esilio, è attribuito da una certa tradizione a Geremia; si articola in 5 ampi lamenti, come una lunga accorata preghiera dei credenti di fronte alle grandi prove della disfatta nazionale, della perdita della terra e della libertà.
C’è chi legge in questo “Pentateuco del dolore” come un universo di passione o un “alfabeto del dolore”, in cui si fondono tristezza, nostalgia, ribellione, lutto… da parte di chi sa d’aver in qualche modo meritato la sciagura, ma anche da parte del giusto che soffre senza colpa. Ma al di sopra di tutto, il testo trasmette la grande e ostinata speranza nel Signore che compirà il suo progetto: “è bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore” (3,26).
Cosa può voler dire questo testo “doloroso” in un tempo in cui tutti si lamentano, anche gli uomini di chiesa (nonostante papa Francesco)?
Lamento pagano
Senz’altro un qualche motivo l’abbiamo anche noi oggi di lamentarci con Dio. Il quale sembra non ascoltare le nostre preghiere e suppliche varie, vocazionali. Mai forse c’è stata così tanta sproporzione tra domanda e risposta, tra semina e raccolto, tra impegno e risultati. Di qui la lamentela, e non sempre né intelligente né credente.
Infatti spesso è stato ed è un lamento che scarica sottilmente la responsabilità su Dio (è lui che chiama e forse chiama meno o non si fa sentire abbastanza, eppure non gli mancherebbe modo…) o sui giovani poco generosi o sulla cultura moderna post-cristiana dell’uomo senza vocazione o sulla crisi economica mondiale o sul vescovo che non ha programmato un buon progetto vocazionale …
In realtà nessun credente ha il diritto di lamentarsi della contrazione vocazionale se non ha il coraggio di “chiamare” nessuno.
Anzi, il lamento è pagano nella misura in cui è motivato ambiguamente da una sensazione di sconfitta personale o di gruppo, dal dispiacere narcisista di contare sempre meno, di non esser più la potenza d’un tempo, d’aver perso ogni… potere contrattuale.
Così come è poco intelligente lagnarsi e non capire dove abbiamo sbagliato, lagnarsi e non agire o continuare a ripetere gli errori di sempre, o lagnarsi e fregarsene o rifugiarsi, come un comodo alibi, nell’orazione, e magari pretendere l’automatismo della risposta.
Faremmo bene a ricordare che nell’Antico Testamento più volte Dio stesso si lamenta (anche Lui…) proprio della sottile falsità della preghiera, quando ad essa non corrisponde una condotta adeguata.
E se il Padreterno fosse stufo delle nostre devote novene e tridui vocazionali, cui non fa seguito un preciso impegno vocazionale? Nessuno ha il diritto di pregare per le vocazioni se prima non vive la fedeltà alla propria chiamata, e poi la responsabilità nel chiamare altri.
Il lamento vocazionale pagano, intonato oggi da troppi credenti, parte dalla paura e provoca solo angoscia, e l’angoscia vocazionale, come sappiamo, provoca solo angoscia, non vocazioni.
Lamento cristiano
Se c’è un lamento pagano ce n’è pure uno credente. È un lamento che provoca un pianto salutare, e un pianto che dice dolore e amarezza, certo, ma al tempo stesso lava gli occhi e purifica lo sguardo.
Così, nel nostro caso, come ci racconta il libro delle Lamentazioni, è il lamento vocazionale che non smarrisce in alcun momento la speranza, fondata sulla certezza che in ogni caso Dio continua a tenere nelle sue grandi mani la vita della Chiesa, comunità di chiamanti e di chiamati, cui egli non farà mai mancare ciò che serve per la salvezza, alla quale, però, tutti sono chiamati a partecipare in modo attivo e responsabile.
Tale lamento, dunque, non parte dalla paura, ma semmai dalla preoccupazione d’intendere correttamente il senso di questa chiamata alla salvezza, di intravvedere nella risposta a essa i propri errori, timori, gelosie, nostalgie…, ma anche le aperture possibili, gli spazi nuovi, l’inedito e la profezia, la fioritura d’una cultura vocazionale e di nuove vocazioni, con tutto il rischio e il coraggio che ciò comporta.
Come non vedere, ad esempio, in questa crisi vocazionale la conseguenza di vedute miopi, di interpretazioni restrittive dell’idea di vocazione, di stili di pastorale vocazionale autoreferenziali, di propaganda vocazionale banale e mercantile o di un’animazione vocazionale timida e rinunciataria o al contrario più simile a un’aggressione vocazionale che a un accompagnamento rispettoso (del progetto di Dio sulla persona e della persona stessa)?
Il lamento intelligente, lo ripetiamo, fa scorgere un po’ alla volta vie nuove. E se è pure credente, consente di vivere la crisi come l’ora di Dio: come salutare cura dimagrante, che ci libera da tante tossine e obesità, non solo per quanto riguarda i numeri, ma per quanto concerne il nostro ruolo in questa storia di salvezza.
Siamo “solo” collaboratori di un’opera che viene da Dio e che sarà lui stesso a portare a termine, ma coinvolgendoci tutti in modo radicale. Non solo chiamando alcuni a fare i funzionari del divino o predestinando altri alla perfezione, ma chiamando ognuno a sentirsi responsabile della salvezza dell’altro, in qualsiasi situazione o status sociale, in prima fila o dietro le quinte, sposati e vergini, in qualsiasi impegno professionale, chiamati della prima e dell’ultima ora, al centro o alla periferia della vita, santi e peccatori, anzi tutti scelti in un popolo di peccatori e inviati a un popolo di peccatori… Perché il lamento si apra alla speranza!
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