ORIENTARSI - Mondo Voc maggio 2013                                                          Torna al sommario

 

 

 

Una vocazione nel mistero

 

Giobbe, colui che ha visto Dio

 

Nel rapporto con Dio, la figura di Giobbe insegna a non cadere in logiche troppo umane di retribuzione che smentiscono la parola di Dio e sfigurano il suo vero volto. Nella prova Giobbe matura un differente rapporto con Dio, sa accogliere totalmente il suo mistero, nel quale comprendere e vivere il mistero stesso della propria vita.


di Amedeo Cencini


Giobbe_cencini_2La domanda sul senso della vita ha dato origine a due tipi di risposta nei libri sapienziali, come due visioni del mondo dall’approdo antitetico. Da un lato si ebbe una sapienza di stampo ottimistico, molto vicina al buon senso popolare, ma disattenta alle contraddizioni della vita. Secondo questa visione la storia è vista come governata da una legge costante, la cosiddetta “teoria della retribuzione”, per cui prima o poi a ogni trasgressione corrisponde un castigo, mentre a ogni atteggiamento di giustizia segue un premio. Tale prospettiva dava un certo ordine alla realtà intera, la quale, però, è più complessa e oscura. Ritroviamo tale risposta nei Proverbi e nel Siracide, ma è pure testimoniata dai personaggi che corrono a consolare il povero Giobbe.

 


Gli amici-nemici di Giobbe

Quando Giobbe, “uomo integro e retto”, viene colpito da prove e sventure di ogni genere, sembra rompersi quell’equilibrio interpretativo che premia il bene e punisce il male. Giobbe, infatti, era “timoroso di Dio e lontano dal male”, non poteva meritare tutte quelle disgrazie, che comunque egli accetta dalle mani di Dio: “il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore” (Gb 1,21). Sono parole sapienti. Ma i tre suoi amici non possono capire, legati come sono a quello schema che pretende difendere Dio attribuendogli una logica del tutto umana, e finisce per accusare Giobbe di avere meritato tale condanna.


Non ci capiscono nulla di Dio né dell’uomo, ma pretendono parlare dell’uno e dell’altro, e alla fine non solo fanno confusione, ma diventano annunciatori di una brutta notizia: chi soffre deve pensare di essere punito da Dio, di esserselo meritato! È l’antievangelo. Annunciato da falsi saggi e finti amici. Ce n’erano ai tempi di Giobbe, ce ne sono anche oggi, sempre con la solita spocchia presuntuosa, a volte anche clericale (dunque ancor più indisponente), di chi pensa di saper tutto di Dio e dell’uomo. E offende entrambi.

 


“Sono stanco della vita”

L’essere umano è fatto per la felicità. Così, quando la sofferenza – di vario genere – bussa alle sue porte è sempre un’esperienza drammatica, che pone l’uomo di fronte alla sensazione del non senso, dell’assurdo. Se poi è con tutta evidenza un dolore innocente e immeritato, allora aumentano ancor più tormento e angoscia, senso di abbandono e rifiuto da parte di Dio.


Giobbe_cencini

Ma Giobbe in questo è esemplare: avverte il turbamento del cuore, ma continua a rivolgersi a Dio, non commette l’errore di allontanarsi da lui, soprattutto gli dice proprio il suo disappunto, la sua delusione, la sensazione di essere trattato ingiustamente, giunge fino a rimproverare Dio di non tener conto del bene che Giobbe ha fatto, mentre tutt’intorno a lui i malvagi prosperano nella fortuna. Perché?


La sua è preghiera di interrogativi puntuti che giungono fino al cielo ma non riescono a perforarne la superficie, a prima vista incapaci di arrivare a Dio. Eppure non sono inutili: l’orazione è fatta anche di domande, lamenti, accuse, invettive… da parte dell’uomo nei confronti di Dio. Che non resta insensibile. Anche quando sembra muto, come fosse offeso e non volesse rispondere; ma la preghiera non è solo scambio più o meno devoto di parole né competizione verbale, lamentosa o arrabbiata, ma evento di grazia nel quale l’orante si trova sempre più immerso, e dal quale esce diverso da come vi è entrato. Anche se non se ne accorge. Pregare trasforma, ti cambia dentro, tu diventi ciò che contempli, ciò che ascolti, che ami… Preghi e ti trasformi in Colui che preghi; entri in intimità con Dio, che ha un cuore di luce, e ne sei illuminato a tua volta (Ronchi). Giobbe, per ora, immerso com’è nel buio della sua disperazione, può solo intravedere tutto ciò, ma di fatto è entrato in questo vortice di luce.

 


Sofar_Elifaz_e_Bildad“I miei occhi ti hanno veduto”

Chi invece continua a non capirci niente sono Sofar, Elifaz e Bildad, i tre sapientoni che, con ostinata supponenza, ripetono i loro scontati argomenti di accusa verso Giobbe e di richiesta di un suo pentimento. Pensano di essere saggi, in realtà sanno di Dio solo “per sentito dire”. Questi singolari personaggi mi fanno pensare, anche se del tutto diversi sono contesto e movente dell’intervento, a quegli scribi che portarono a Gesù l’adultera sorpresa in piena attività lavorativa per reclamarne la condanna da parte del Maestro. Sono quei credenti che sono ormai schiavi di una lettura chiusa e rigida della giustizia divina, secondo la quale chi sbaglia deve pagare, e chi soffre se l’è meritato.


Cosa manca a questi finti credenti? Agli scribi del tempo di Gesù con le pietre in mano, manca la coscienza del loro personale peccato, ai tre amici di Giobbe manca proprio l’esperienza che sta facendo Giobbe, l’esperienza della prova. Entrambe queste esperienze, dell’essere deboli e di soffrire da innocenti, non solo consentono all’uomo di conoscersi meglio, al di là di tante illusioni-presunzioni, ma soprattutto svelano alla lunga il vero volto di Dio: quel mistero di amore che perdona e salva, che sarà poi pienamente svelato nell’effusione del sangue dell’Agnello innocente, ma che ci chiama poi a fare altrettanto.

 


Entrare nel mistero di Dio

Giobbe rappresenta per tutti noi una tappa importante in questo svelamento: con la sua prova sempre più accolta dalle mani di Dio, come una vocazione nel mistero, è colui che accetta di entrare nel mistero di Dio e di… restarvi anche quando appare incomprensibile all’uomo, oltre dunque le sciocche pretestuose spiegazioni dei suoi amici. Ma è soprattutto colui che – proprio grazie alla prova accettata – può dire di avere visto Dio: “io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto” (Gb 42,5).

 

 

 

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