ATTUALITÀ - Mondo Voc aprile 2012 Torna al sommario
Qual è il ruolo della famiglia nel discernimento e accompagnamento vocazionale?
Educare la famiglia
alla cultura vocazionale
Il rapporto famiglia-vocazione è una realtà complessa e difficile da inquadrare in schemi ben definiti. Di per sé la famiglia non è direttamente sorgente di vocazioni. La famiglia infatti non è autosufficiente nell’educare alla fede e nel discernere e accompagnare la vocazione dei figli, ma essa resta il passaggio obbligato dal quale quasi sempre dipende, se non la vocazione, almeno la serenità e la pienezza di un percorso vocazionale. Ciò che occorre è educare la famiglia ad una cultura vocazionale che faccia sì che la famiglia diventi l’ambiente ideale per lo sviluppo delle vocazioni. Ecco alcune strategie e percorsi adeguati per raggiungere questo obiettivo.
di Francesco Bruno
Che la famiglia non sia un “passaggio vocazionale” obbligato, dal momento che la chiamata di Dio può giungere talora prescindendo o addirittura contro di essa, lo confermano storie di vita come quella di Charles de Foucauld, di Paola Carboni o dei nove Fratelli di Kola, in Georgia, uccisi dai loro stessi genitori pagani. Tuttavia è anche vero che numerose esperienze vocazionali, da Agostino a Teresa di Lisieux, rivelano quanto sia stato importante, e a volte determinante, il contesto familiare.
E ai nostri giorni? Sicuramente il rapporto tra famiglia e vocazioni si pone in termini assai diversi rispetto al passato per effetto dei profondi mutamenti intervenuti nella sfera della famiglia, in relazione ai processi di cambiamento della società occidentale. Molte madri un tempo desideravano che un loro figlio diventasse sacerdote e si chiedevano come prepararlo a questa scelta. E la Chiesa organizzava i “seminari minori” in cui i fanciulli si preparavano ad entrare poi nel “seminario maggiore”. Oggi numerosi fattori influiscono e condizionano il rapporto famiglia-vocazione. La crisi di credibilità del matrimonio; la teorizzazione delle libere convivenze come “normale” scelta di vita; la precarietà e la fragilità delle unioni coniugali, spesso ricostruite; il modello del figlio unico su cui si caricano le attese familiari, come la prosecuzione dell’attività professionale, la trasmissione del nome e del patrimonio. Il tutto in una cornice generale di secolarizzazione che tende ad escludere completamente di Dio e la religione dalla vita sociale.
Eppure, in questo contesto storico e sociale, in cui tutto viene relativizzato e messo in discussione, è interessante leggere due dati che sembrano smentire ogni interpretazione pessimista sulla famiglia, sulle vocazioni e sul loro rapporto. Il primo è fornito dall’Osservatorio del Dipartimento per le politiche della famiglia della Presidenza del Consiglio dei Ministri, che nella Conferenza nazionale del 2010, ha affermato: la famiglia resta, per comune percezione nel Paese, la fondamentale istituzione della società. Il secondo emerge da uno studio sui candidati all’ordinazione sacerdotale negli Stati Uniti, promosso dalla United States Conference of Catholic Bishops (Usccb) e realizzato dal Center for Applied Research in The Apostolate (Cara), presso la Georgetown University, che ha evidenziato come la famiglia e la comunità parrocchiale hanno sempre più un ruolo fondamentale nel promuovere le vocazioni. Questi semplici osservazioni dicono che, al di là delle prime impressioni e dei soliti luoghi comuni, il rapporto famiglia-vocazione è una realtà complessa e difficile da inquadrare in schemi ben definiti.
Siamo tutti coscienti e convinti di quanto insegna il Magistero della Chiesa circa la famiglia che può essere considerata come “luogo privilegiato”, “culla”, “vivaio naturale”, “sorgente di vocazioni”, “ambiente ideale”, “giardino” e “primo seminario”, in cui i semi di vocazione, che Dio sparge a piene mani, sono in condizione di sbocciare e di crescere fino alla piena maturazione. E siamo anche d’accordo con quegli studiosi che dicono non essere solo un caso che alla crisi che sta affrontando la famiglia in questi decenni, corrisponda una crisi senza precedenti anche delle vocazioni sacerdotali e di speciale consacrazione. Tuttavia, anche se la vocazione ha a che fare con la famiglia, non è certo solo un problema della famiglia. La famiglia non è autosufficiente nell’educare alla fede e nel discernere e accompagnare la vocazione dei figli, ma essa resta il passaggio obbligato dal quale quasi sempre dipende, se non la vocazione, almeno la serenità e la pienezza di un percorso vocazionale.
Sono già diversi anni in cui gli “addetti ai lavori” si confrontano sul tema in cerca di nuovi percorsi: si parla così della sfida della pastorale unitaria, dei sentieri comuni tra pastorale vocazionale, giovanile e familiare, di sinergia tra pastorale vocazionale e familiare. Tutti questi tentativi confermano che le mutate condizioni storiche e culturali esigono che la pastorale delle vocazioni sia percepita come uno degli obiettivi primari dell’intera Comunità cristiana (Giovanni Paolo II, 1997). E questo processo di “universalizzazione” della realtà vocazionale avrà una ricaduta sul rapporto famiglia-vocazioni. Infatti, la costante e paziente attenzione della Comunità cristiana al mistero della divina chiamata promuoverà, così, una nuova cultura vocazionale nei giovani e nelle famiglie (Giovanni Paolo II, 1997).
Mi sembra, allora, che sia proprio questo il principio da focalizzare: educare le famiglie ad una nuova cultura vocazionale. Questo processo educativo implica l’acquisizione di diversi atteggiamenti che fanno della famiglia l’ambiente ideale per lo sviluppo delle vocazioni. Ne indico almeno tre.
Innanzi tutto credere che “ogni vita è vocazione” (Paolo VI). Questo, purtroppo non è così scontato! Oggi la vita umana appare all’uomo della società secolare non come un “dono” che scende dall'alto, ma come una libera e autonoma scelta della per¬sona, totalmente assoggettata alla sua decisione. E questa libera autogestione troppo spesso segue la logica della sistemazione sociale, economica, affettiva, una logica cioè che tende al ribasso. E' molto diffusa, infatti, una cultura che induce i giovani ad accontentarsi di progetti modesti che sono molto al di sotto delle loro possibilità. Ma tutti sappiamo che, in realtà, nel loro cuore c'è un'inquietudine ed una insoddisfazione di fronte a conquiste effimere; c'è in loro il desiderio di crescere nella verità, nella autenticità e nella bontà; c'è l'attesa d'una voce che li chiami per nome. Sentirsi dentro una vocazione, cioè sentirsi chiamati, sentirsi scelti, sentire che qualcuno ha posato lo sguardo proprio su di loro e li aiuta a individuare una strada, è forse l’esperienza più entusiasmante che si possa fare. Solo il recupero del senso religioso della vita può consentire di riscoprire, anche all’in¬terno della famiglia, la dimensione vocazionale dell’esistenza.
Un secondo atteggiamento è quello di credere e vivere il matrimonio e la famiglia come vocazione. L’esperienza della vita dimostra che laddove ci si imbatte in una vocazione pienamente realizzata, matrimoniale o di speciale consacrazione che sia, nasce una santa invidia che spinge a cercare la propria pienezza, realizzando la propria chiamata. È singolare che dei quattro figli dei beati coniugi Beltrame Quattrocchi, nessuno abbia formato una famiglia! Sicuramente non perché inorriditi dalla propria esperienza familiare, ma proprio perché sollecitati dalla testimonianza dei genitori a trovare la propria strada. La capacità dei figli di riconoscere il valore della vita e la responsabilità di spenderla per qualche cosa di grande dipende in gran parte dalla “qualità evangelica” della loro relazione sponsale. In altre parole, la percezione del valore della vita e della chiamata di Dio a farne un dono di amore per gli altri, è in stretta relazione con la qualità della risposta alla vocazione all’amore dei genitori. L’amore vissuto da due sposi come risposta ad una vocazione è capace di creare quell’ambiente vitale nel quale cresce quasi spontaneamente la consapevolezza dei figli di aver ricevuto con la vita un dono di amore e il coraggio di spendere questo dono nel modo migliore.
Un terzo atteggiamento che porta con sé l’acquisizione di una cultura vocazionale è la stima della vocazione al sacerdozio e alla vita consacrata. Nella cultura postmoderna dai contorni ambigui e mobili l’identità del prete è stata sottoposta a un processo di cambiamento, se non di dissolvenza. In questi ultimi anni, poi, i numerosi e dolorosi scandali, di ogni tipo e a ogni livello, hanno contribuito a sbriciolare questa figura che aveva già perso la sua forza di attrazione e a creare non pochi interrogativi, se non inquietudini, nella coscienza dei genitori, anche credenti, di fronte alle possibili scelte dei propri figli. Mi capita talora di raccogliere nei genitori una specie di paura, di apprensione al sospetto che un figlio possa orientarsi al ministero sacerdotale, scrive il Card. Martini. Penso che un papà e una mamma possano comprendere, al di là dei luoghi comuni e delle reazioni emotive, quale grande grazia sia il dono del sacerdozio e possano perciò rallegrarsi se un loro figlio sente l’attrattiva per questa strada: vi assicuro che non gli mancherà la gioia, se sarà un bravo prete. In ogni caso parlare male dei preti e indicarli come responsabili di tutto quanto non va nelle comunità cristiane non può certo aiutare a migliorare le cose e tanto meno incoraggiare un giovane a farsi avanti per assumere un ministero tanto necessario per la Chiesa e tanto bello per chi lo vive bene.
Se educare la famiglia alla cultura vocazionale è un processo fondamentale per farne un ambiente vocazionale idoneo diventa necessario trovare le strategie e i percorsi adeguati per raggiungere questo obiettivo. Ordinariamente ci sono i cammini comunitari di fede, quelli classici dell'essere credente, lungo i quali matura la fede e la dimensione vocazionale a servizio della comunità ecclesiale. Sono i cammini comunitari fatti di liturgia e di ascolto della Parola, di comunione ecclesiale e di esperienza dell'amore di Dio ricevuto e offerto nell’esercizio della carità che diventa servizio.
Ma c’è un percorso che mi sembra “straordinario”, nel senso di insolito e poco praticato, ma anche nel senso di stupefacente ed originale: la preghiera insistente per le vocazioni come generatrice di una cultura vocazionale. Si tratta di un vero e proprio cammino di preghiera che pian piano fa nascere la disponibilità ad uscire fuori dal ristretto mondo dei propri bisogni e dei propri modi di interpretare la realtà per aprirsi agli interessi universali del mondo e della Chiesa. È una preghiera che ci converte e ci rende disponibili, che ci fa entrare, cioè, nella dinamica vocazionale del dono gratuito. Tutto questo lo aveva già intuito sant’Annibale Maria Di Francia, l’apostolo della preghiera per le vocazioni (Giovanni Paolo II). Ma ciò che è interessante nell’attuale riflessione pastorale è che lo hanno proposto anche i nostri vescovi italiani durante la XLVI assemblea generale della CEI nel maggio del 1999: Nelle nostre comunità ecclesiali la preghiera è esperienza diffusa. Maturando in questa esperienza, molti imparano a mettere al centro della loro preghiera le esigenze del Regno, chiedendo il dono di sante e numerose vocazioni. Nasce così un vero e proprio movimento di preghiera, che la creatività dello Spirito fa crescere in maniera sorprendente e fantasiosa: ne fanno parte giovani e ammalati, consacrati e laici, persone che vivono da sole e intere famiglie. Così la cultura della preghiera genera una “cultura vocazionale”. La famiglia che riunita, magari insieme ad altre famiglie, prega per le vocazioni cresce nella cultura vocazionale perché si lascia plasmare dall’azione dello Spirito nella disponibilità ad essere essa stessa la prima a mettersi in gioco per le esigenze del Regno di Dio. Questo stesso concetto lo esprime il Card. Martini in una lettera al clero di Milano nel 2001, anche se non fa un riferimento diretto alla famiglia. Ma la preghiera - tu lo sai - non è una specie di delega al Signore perché faccia lui al nostro posto: è piuttosto un abbandonarsi intelligente e libero alla guida dello Spirito che diventa disponibilità a compiere le opere di Dio. Perciò la preghiera per le vocazioni dovrebbe essere più intensamente praticata da parte di coloro che si trovano nell'età e nelle condizioni di scegliere lo stato di vita. Ho invece la percezione che, se i giovani pregano (e alcuni sono davvero attratti dalla preghiera), molto raramente e con poca convinzione pregano per le vocazioni. Raccomando quindi a te non solo di pregare secondo il comando di Gesù, bensì di incoraggiare le persone che già pregano per questa intenzione e di proporre con insistenza la preghiera per gli operai della messe ai ragazzi, agli adolescenti e ai giovani. Vorrei anzi che ogni adolescente o giovane comprendesse che la verità di tale preghiera è raggiunta quando nel fondo risuona come quella di Isaia: "Signore, se vuoi, manda me!" (cfr Isaia 6,8). Dunque non soltanto la preghiera insistente per le vocazioni genera una cultura vocazionale, ma avviene anche che l’acquisizione della cultura vocazionale è garanzia della qualità della preghiera fatta col cuore e certezza di essere esaudita. La famiglia diviene così sorgente di vocazioni.
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