STORIE DI VITA - Mondo Voc giugno - luglio 2011 Torna al sommario
RAPHAEL GUALAZZI
Un piano per vincere
di Vito Magno
Il trentenne pianista di Urbino con il suo jazz un po’ retrò, ma efficacissimo, è partito alla conquista del mondo. Un pigliatutto! Un marchio di fabbrica inconfondibile! Prima la vittoria a Sanremo giovani e il premio della critica; poi la colonna sonora del film “Manuale d’amore 3” con Robert DeNiro e Monica Bellocci, infine a maggio il secondo posto alla finale dell’Eurofestival. Partito dalla musica americana e scoperto come talento da Caterina Caselli, avverte la missione di rendere popolare il jazz. Per lui il pianoforte è un impegno fisico, psicologico, spirituale. “Suonarlo -dice- è come combattere un demone”.
A Sanremo hai vinto tutto ciò che un giovane poteva sperare. Come valuti questo momento della tua vita?
Un momento impegnativo e insieme gratificante. Accanto a grandi sacrifici ci sono grandi soddisfazioni. La cosa più bella della musica, in tempi socialmente e politicamente non facili, è che ha il compito di risollevare gli animi. Da questo punto di vista è un dono che Dio dà agli uomini, un mezzo per potersi elevare, per poter trascendere le sofferenze del mondo.
Valore sociale, dunque, ma anche sacro della musica!
Sì, assolutamente. Anni fa sono stato in America e in una chiesa americana ascoltai un saggio di ragazzini appartenenti a varie religioni. Ognuno suonava una percussione diversa. Credo che la musica abbia dentro tanto amore per Dio con qualsiasi nome lo si voglia chiamare. Sono cristiano, cattolico, e sono contento di esserlo.
Un dono di Dio, dicevi!
Assolutamente sì. Mi sembra quasi un peccato doverlo dire, nel senso che ci metto tutto il cuore che posso. È un grande dono perché mi permette di accostarmi al cuore della gente senza etichette, senza barriere.
Un dono che a Sanremo ha ricevuto la consacrazione con la canzone “Follia d’amore”!
Questa canzone contiene due elementi che aiutano ad essere felici: la follia e l’amore. La follia intesa come qualcosa che rappresenta i nostri pregi e i nostri difetti, e l’amore che è il più importante valore della vita.
La tua passione per la musica, e in particolare per il pianoforte quando ha avuto inizio?
Il pianoforte è lo strumento dell’approccio più immediato quando sei bambino: basta appoggiare le dita sulla tastiera e si produce un suono. Poi, in realtà con gli anni, si scopre che è uno strumento ben più articolato e che ha un’orchestra dentro di sé. Ho imparato le note all’età di nove anni, fino ai quattordici sono stato autodidatta, poi ho studiato al Conservatorio di Pesaro e mi sono inoltrato in una mia ricerca nel mondo del jazz e del rock.
Come mai hai scelto il jazz come mezzo di espressione?
Ritengo che il jazz, soprattutto nelle sue forme originarie, rappresenti l’assimilazione della cultura europea dentro quello che era il costume e la situazione ritmico-musicale afroamericana. Io sono stato in America e mi sono appassionato a mettere insieme quello che avevo imparato al Conservatorio e il lirismo del blues delle origini.
Però il jazz è un genere musicale poco seguito dai giovani d’oggi!
Il jazz è stata la musica popolare fino agli anni cinquanta; la gente stava bene, ballava, sentiva questo linguaggio musicale come del tutto naturale e stimolante. Quello che, nel mio piccolo, mi propongo di fare è riaprire questa strada, è riportare il jazz alla sua popolarità.
Lo fai anche nell’album appena pubblicato “Reality and fantasy”. Cosa c’è dentro?
Ci sono brani, sia in lingua inglese che in lingua italiana, che toccano diversi generi. Ad una cantante inglese si unisce il bravissimo Fabrizio Basso che suona la tromba in diversi brani e poi molti altri bravi artisti.
Così giovane e così impegnato! Ma quando non scrivi e non canti cosa fai?
Quando non suono scrivo, quando non scrivo canto. Quando ho tempo mi piace fare delle passeggiate in luoghi solitari. Dove abito ci sono dei paesaggi bellissimi. Sostanzialmente vivo la vita, niente di più.
Hai un consiglio da dare agli aspiranti musicisti?
Credo che la cosa più importante sia amare ciò che si fa, crederci sempre e dedicarsi con sacrificio per potersi liberare poi nel momento del live, della musica. Poi. come diceva un biografo di Monk, quando si è sullo stage tendenzialmente bisognerebbe sempre suonare sia per il pubblico che ti sta davanti, sia per l’arte, sia per sé stessi, mai troppo per una sola di queste dimensioni, perché poi o si diventa degli esteti o si diventa egoisti, oppure si diventa commerciali, anche se poi non c’è una regola. Io non voglio assolutamente azzardarmi a dare regole, quello che posso dire è che quando si ama quello che si fa, e ci si mette tanto sacrificio, tanta passione, poi i risultati vengono. “Let the good times roll” come diceva qualcuno!
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