ORIENTARSI- Mondo Voc maggio 2011 Torna al sommario
Due differenti atteggiamenti davanti alla Parola di Dio che chiama: quello di un burocrate del culto che in realtà non ascolta; e quello di una donna semplice e disperata che apprende cosa è la vera in-vocazione.
di Amedeo Cencini
È storia singolare quella di Anna, la madre di Samuele, figlio della sua angoscia di donna sterile e delle sue lacrime oranti. Storia singolare soprattutto se la poniamo accanto a quella di Eli, sommo sacerdote in quel tempo. Il confronto è a tinte molto marcate: lui è l’unto del Signore, lei è una povera donna, afflitta e anche umiliata. Anche sul piano vocazionale classico sembra una situazione fortemente sbilanciata a favore dell’uomo di Dio, cui tutti riconoscono una particolare chiamata e un ruolo centrale nella vita di Israele e nel tempio del Signore. Anna, invece, non ha una particolare missione, è solo una fra le tante che si recano al tempo a fare le offerte e a pregare l’Onnipotente Dio.
Così, almeno, all’apparenza. E secondo un modo un po’ stantio e superficiale di considerare il senso della chiamata. Ma vediamo un po’ più da vicino.
Un ricco passato e un incerto futuro
Anna è moglie di Elkanà, che gode di un grande passato, ma nel presente è insignificante, anzi, la sua donna è sterile e disprezzata dall’avversaria poligama. Sono entrambi esclusi dal futuro, senza futuro o disperati.
È una disperazione che conosciamo anche noi oggi, tentati come siamo di guardare in un certo modo al passato e di confrontare il passato col presente, e decidendo che il primo è stato ricco e glorioso, mentre il secondo rischia la sterilità, come il grembo di Anna, al punto da mettere in dubbio il futuro. C’è disperazione nella Chiesa, non è saggio negarlo. Anche perché solo chi la riconosce può aprirsi alla speranza. Che ne sa della speranza chi non è mai stato disperato? È quel che ci insegna Anna, la donna dall’animo amareggiato.
Una donna disperata e un… ufficiale del culto
Infatti Anna porta tutta la propria amarezza “davanti al Signore”, la converte in preghiera, la rende grido orante, supplica struggente di avere un figlio… Mentre il prete se ne sta lì, assolutamente tranquillo, “seduto sul suo seggio davanti a uno stipite del tempio” (1 Sam 1,9). Un contrasto evidente tra la tensione orante della donna e la soporifera quiete del prete, freddo “funzionario del divino”, seduto comodamente a osservare la gente, lontano da Dio e pure da chi lo prega e gli è vicino, senza capirci nulla né del primo né del secondo.
E infatti ci capisce così poco, della disperazione orante, da prendere Anna per “ubriaca”, divenendo persino volgare e offensivo.
Che tristezza un prete che non afferra il mistero né capisce l’autenticità della fede poiché espressa in modi semplici, forse non a lui congeniali o che lui vede inautentici. Che desolazione un prete che non ha l’umiltà e la libertà interiore di imparare a pregare da una donna in lacrime; o che non conosce quell’esperienza di Dio che nasce dalla propria pena, debolezza e impotenza, quando Dio diventa l’unica salvezza della propria vita, il potente riparo da ogni avversità e la preghiera unica speranza e consolazione, quando l’orante può davvero dire: “Signore solo tu puoi salvarmi”, come appunto Anna.
Vocazione e in-vocazione
Anna ed Eli appaiono qui proprio come due immagini contrapposte, soprattutto dal punto di vista dell’atteggiamento vocazionale del credente. Anna è l’immagine di chi, abbiamo visto, accetta di andare fino in fondo al proprio abisso di dolore, di non senso, di frustrazione…, e tutto questo la porta “davanti al Signore”, lo vive nella preghiera, cercando in esso, e non altrove, il progetto di Dio su di sé. In una parola diciamo che Anna vive come vocazione il suo dramma, anzi, come in-vocazione. Che alla fine verrà esaudita, poiché Dio le aprirà una strada verso il futuro, le rivelerà un piano nel figlio atteso.
A differenza di Eli: l’uomo del culto (e la cosa non può non sconcertarci) che riesce a galleggiare con il salvagente della sua presunzione su tutte le situazioni, imperturbabile e olimpico, senza mai fare l’esperienza dell’“andare sotto” e del sentirsi perduto. Costui anche se dice e “fa dire” preghiere, non prega mai, perché non ha imparato a vivere la preghiera come chiamata, o a passare dall’in-vocazione alla vocazione, dalla supplica accorata all’accoglienza della parola-che-chiama, ma che solo l’in-vocante può riconoscere.
Il confronto è sconcertante: Eli, il chiamato per eccellenza, scelto a ricoprire un ruolo di grande significato, sembra essere la persona meno attenta alla voce che chiama rispetto alla disponibilità di Anna, la donnetta del popolo. È come si rovesciasse una certa concezione vocazionale con la gerarchia di ruoli cui siamo anche noi abituati.
“Il Dio d’Israele ti conceda quello che gli hai chiesto”
Ma a un certo punto Eli sembra in qualche modo riscattarsi o cominciare a capire qualcosa. Quando Anna gli manifesta il suo dramma egli, per tutta risposta, invoca su di lei la benedizione dell’Eterno e la sua pace. È come se le lacrime di questa donna avessero avuto il potere di toccare il suo cuore e di fargli recuperare un atteggiamento autenticamente sacerdotale, benedicente nel nome del Signore.
Così, chi è più in basso, scuote e mette in crisi, illumina chi è a lui superiore, almeno secondo i nostri modi di vedere. È il segreto della relazione, quando è vissuta autenticamente; ma forse è anche il segreto della vera animazione vocazionale, quella spicciola e semplice, quotidiana e feriale, in cui ognuno è animatore vocazionale dell’altro e con l’autenticità della propria testimonianza lo provoca a cogliere il disegno di Dio su di lui e a essergli fedele. Il sacerdote Eli, alla fine, mostra l’umiltà e la libertà di imparare, di lasciarsi formare, da una donna del popolo. L’avessero tutti i sacerdoti, e tutti i chiamati!
Sarebbe bello vivere in una Chiesa ove le relazioni diventano luogo e strumento di animazione vocazionale.
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