11 Gennaio 2014

 

gesuita che si era “fatto Cina” ha concluso la fase diocesana.

La causa di beatificazione da ieri è alla Congregazione per le Cause dei Santi


6279Matteo Ricci più vicino agli altari


I faldoni della causa di beatificazione di Matteo Ricci sono sbarcati ieri a Roma, alla Congregazione per le Cause dei Santi. Ad annunciarlo ieri in un incontro pubblico è stato Claudio Giuliodori, amministratore apostolico della diocesi di Macerata. Il processo per il riconoscimento della santità del grande gesuita che si era “fatto Cina” per portare nel Celeste Impero l'annuncio cristiano ha dunque concluso la sua fase diocesana, svoltasi a Macerata, dove Ricci era nato nel 1552.

 

Dopo aver controllato la validità degli atti e dei documenti pervenuti, il processo inizierà la fase romana: verrà nominato un relatore incaricato di organizzare il materiale raccolto per attestare che il candidato all'onore degli altari ha esercitato “in grado eroico” le virtù umane e quelle teologali. Dal gennaio 2010, come vescovo di Macerata, era stato proprio Giuliodori a far ripartire con slancio la causa di beatificazione - fino ad allora proceduta a rilento - del grande missionario marchigiano la cui tomba a Pechino oggi si trova nel compound della scuola quadri del Partito comunista. Ieri lo stesso monsignore, che ora è assistente ecclesiastico dell'Università Cattolica, ha subito suggerito le implicazioni “cinesi” della notizia sull'approdo vaticano del processo di  beatificazione: “Mi auguro”, ha detto Giuliodori, “che con l'input di Papa Francesco ci sia una spinta all'evangelizzazione e al dialogo con la Cina". 

 

In effetti, diversi fattori congiunturali e di fondo fanno pensare che la causa di Li Madou – così lo chiamano i cinesi – potrà ora ricevere nei Palazzi vaticani l'attenzione che merita. A unire il grande Italicus Maceratensis del Seicento al primo Papa gesuita non c'è solo la comune appartenenza alla Compagnia. Certi affondi di Papa Bergoglio sulle dinamiche dell'annuncio cristiano trovano sorprendenti corrispondenze con la via che il suo confratello provò a percorrere più di quattrocento anni fa per "liberare dalla perdizione eterna" le anime sparse nell'immensità dell'Impero. Matteo era arrivato “in questo altro mondo della Cina” - così diceva lui, con parole simili a quelle usate da nuovo Papa per presentarsi a Roma, la sera del 13 marzo -  senza essere scortato dai cannoni delle potenze straniere, come sarebbe capitato a parecchi missionari dell’epoca coloniale. Allora i compagni di sant’Ignazio usavano partire da soli, o a due a due. Si inoltravano inermi in terre sconosciute e ostili, ai quattro angoli del mondo. L'annuncio cristiano – ripete Papa Francesco – non è proselitismo.

 

E Anche per Mateo Ricci, la novità cristiana poteva attecchire in Cina non in virtù di una dialettica teologica. Né, tantomeno, facendo tabula rasa delle tradizioni culturali e spirituali partorite dalla civiltà locale. Con l’immensa moltitudine pagana, era inutile e sbagliato pensare a “strategie di conquista”. Occorreva prima rompere il muro d’estraneità, presentandosi come portatori di cose buone, utili. Come la geometria euclidea, le conoscenze geografiche e gli orologi che lui portò in dono ai letterati cinesi. "Con questo modo di parlare, più con opere che con parole” scrive  Li Madou nelle sue opere “venne il buono odore della nostra legge a spargersi per tutta la Cina". 

 

Nell'incontro con la complessità culturale del mondo cinese, scrutando le diverse scuole di pensiero – e scegliendo alla fine come partner privilegiati gli “illuministi” confuciani piuttosto che i superstiziosi bonzi buddisti - Matteo Ricci cercava sempre un punto d’incastro, un’affinità minimale, una risonanza familiare anche lontana da cui partire per spargere in quella terra il seme cristiano, senza che esso venisse subito respinto come un corpo estraneo. L'attenzione e la cura con cui Papa Francesco si rivolge a chi non ha il dono della fede appare in piena sintonia con l'approccio del suo geniale confratello: “Dobbiamo sempre chiedere perdono e guardare con molta vergogna”, ha detto il Vescovo di Roma nel suo colloquio con i Superiori generali dei religiosi, “agli insuccessi apostolici che sono stati causati dalla mancanza di coraggio. Pensiamo, ad esempio, alle intuizioni pionieristiche di Matteo Ricci, che ai suoi tempi sono state lasciate cadere”.

 

Gianni Valente

 

(vaticaninsider.lastampa.it)