ufficio_vocazioni8 ottobre 2012


Il Consiglio episcopale permanente ha sancito il passaggio del Centro nazionale vocazioni a Ufficio nazionale per la pastorale delle vocazioni.


La scelta della Cei di un Ufficio nazionale per la pastorale delle vocazioni


Il Consiglio episcopale permanente (24-27 settembre 2012) ha sancito il passaggio del Centro nazionale vocazioni a Ufficio nazionale per la pastorale delle vocazioni, approvandone il regolamento e inserendolo a pieno titolo nella segreteria generale della Cei. “In questo modo - si legge nel comunicato finale - ha dato nuova configurazione giuridica a un organismo che ora diventa segno più adeguato della collocazione della dimensione vocazionale nel contesto della pastorale delle Chiese particolari in Italia”. Il Sir ha intervistato il suo direttore, mons. Nico Dal Molin, già direttore del Cnv .

Dal Centro nazionale vocazioni al nuovo Ufficio Cei: qual è il senso di questa scelta dei vescovi italiani?
“Si tratta di un fatto sostanziale dal punto di vista pastorale: la Cei, con questa scelta, vuole lanciare a tutta la comunità cristiana un messaggio di nuova consapevolezza, attenzione, sensibilità al problema della pastorale vocazionale. Quando si costituisce un Ufficio che interagisce alla pari di altre realtà all’interno della segreteria generale della Cei, e non è più un alveo particolare in cui ci si muove, l’intenzione è quella di dare un messaggio pastorale forte: i vescovi, in altre parole, vogliono dare attenzione e visibilità alla pastorale delle vocazioni, come si legge nello statuto del nuovo Ufficio. Nell’ultimo Consiglio episcopale permanente, c’è stata un’attenzione particolare alla crisi delle vocazioni al sacerdozio, però in un contesto molto costruttivo. Nelle parole del card. Bagnasco, infatti, il prete è colui che promuove tutte le vocazioni: valorizzare la vocazione del presbitero vuol dire fare un cammino comune per valorizzare la bellezza di tutte le vocazioni, non solo di quelle al ministero ordinato e alla vita consacrata, compiendo un passaggio culturale che favorisca una ‘mentalità’ vocazionale. Si è voluto imprimere una decisa accelerazione alla pastorale vocazionale, anche attraverso una dedizione specifica dei vescovi, una presa di consapevolezza nuova, che si senta interpellata non solo dalla crisi numerica del clero, ma riguardo alla modalità qualitativa della vita delle nostre comunità, da cui nascono tutte le vocazioni. Il cardinale presidente ha evocato, a questo proposito, la necessità di una mobilitazione ‘affettiva e orante’ di tutto il popolo di Dio”.

Il card. Bagnasco ha auspicato, inoltre, “preti entusiasti” e con una “chiara identità”…
“Da una parte, oggi, bisogna riflettere sul senso di smarrimento culturale, di ‘spaesamento’ che caratterizza l’uomo contemporaneo, e al quale il cristiano deve rispondere con l’icona positiva del pellegrino, di quello che Gabriel Marcel già nel 1944 chiamava l’‘homo viator’, che non sempre vede la mèta ma sa che c’è e dunque si mette in cammino. Se non ha lo sprone, l’inquietudine della ricerca positiva, il cuore dell’uomo è destinato a morire, perché non ha più vitalità. Dall’altra, diventa necessario recuperare il senso di chi siamo e dove vogliamo andare: è un aspetto, questo, che tocca tutta la Chiesa, interessata a ri-definirsi. Ciò interpella la testimonianza di ciascuno di noi: se non ho la consapevolezza e la gioia della mia scelta, passa un’identità, sbiadita, confusa”.

C’è poi il grande tema del laicato - a 50 anni dal Concilio - che chiede più impegno nella formazione permanente: quali i passi da compiere?
“Questo sta diventando per noi un tema prioritario. Fare una buona pastorale vocazionale, infatti, significa interessarci del ‘prima’ (l’annuncio, l’orientamento, il discernimento), ma c’è anche un ‘durante’, dove è centrale l’attenzione ai seminari - con i quali manteniamo un contatto diretto - e ai formatori nella vita consacrata, nostro punto di riferimento pur nella loro autonomia. Bisogna arrivare a rimettere al centro una seria formazione permanente della vita presbiterale, che vuol dire anche una riforma degli stili di vita, contrassegnati da pausa di contemplazione, di preghiera, per contrastare la frenesia più totale in cui siamo in genere assorbiti. Si tratta di un impegno che tocca lo stile di vita delle nostre di comunità, e anche le modalità di coinvolgimento dei laici all’interno di esse: il prete non è più il centro di tutto, e come raccomanda il Papa in ‘Porta fidei’ bisogna stare sulla soglia, cioè saper guardare dentro ma accogliere anche quelli che sono fuori dalla casa, instaurando relazioni di fiducia”.

Il Sinodo sulla nuova evangelizzazione è un’occasione per riscoprire il legame tra vocazione e annuncio: quale ruolo può svolgere la Chiesa italiana, anche in Europa?
“Come si legge nell’‘Instrumentum laboris’ del Sinodo, l’annuncio vocazionale non è altro che l’annuncio di Gesù, e ciò ci riporta al legame con l’Anno della fede, che per il Papa è una quesitone prioritaria: se in passato si poteva prescindere da questo annuncio, oggi è impensabile. In Europa, si guarda con ammirazione alla proposta della Chiesa italiana sulle vocazioni. Due le scelte che fanno dell’Italia un apripista, di cui ricalcare le orme: l’ecclesiologia di comunione e la presenza capillare sul territorio. L’età degli animatori vocazionali, da Nord a Sud, si sta notevolmente ringiovanendo, e nella nuova generazione emergono motivazioni che, fino a qualche anno fa, non trovavamo. La Chiesa deve avere la capacità di cogliere le istanze del mondo giovanile: più che dare risposte, bisogna suscitare domande, ma sapendo andare incontro ai loro reali bisogni”.


(a cura di M.Michela Nicolais – Agenzia SIR)