ORIENTARSI - Mondo Voc aprile 2013 Torna al sommario
“Io giocavo davanti a lui in ogni istante…”
La Sapienza, delizia dell’Eterno
Non un personaggio storico, ma una realtà personificata, la sapienza della quale parla la Bibbia, sapienza come emblema della ricerca che ogni persona è chiamata a compiere nella propria vita, ricerca di senso e di autenticità. Sapienza che è “gioco” di Dio, donata all’uomo perché scopra la bellezza della verità e la gioia di vivere.
di Amedeo Cencini
Stiamo scorrendo ordinatamente la Bibbia, alla ricerca di “personaggi vocazionali”, di credenti che hanno preso l’esistenza come una vocazione, impegnandosi nella missione e nella testimonianza della vita. E siamo giunti ai libri sapienziali (Giobbe, Salmi, Proverbi, Qoèlet, Cantico, Sapienza, Siracide), ove forse scarseggiano personaggi storici classici (al di là di Giobbe e i suoi “amici”), ma in cui la scena è dominata da una realtà misteriosa (nel linguaggio comune pure astratta), ma che qui, nel contesto biblico, è personificata: è creatura di Dio, è la “signora sapienza” (opposta alla “signora stoltezza”, Pr 7,1-26).
Chi è, da dove viene tale signora?
Ricerca di senso
Tutto parte da una domanda che proprio un sapiente biblico, il Qoèlet, formula così: “Quale guadagno viene all’uomo per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole?” (Qo 1,3). È una domanda che nasconde “la” domanda per eccellenza, la domanda di senso, quella che ogni uomo prima o poi si pone, specie in certi momenti: “che senso ha la vita?” L’uomo inizia a ragionare quando si pone questa domanda. Ed è inevitabile che se la ponga, non potrebbe farne a meno. È Dio che ha posto e pone tale interrogativo al centro del cuore umano, ma l’uomo cerca in mille modi di cancellarlo o lasciarlo in stand-by, o gli dà risposte incongrue e insensate. “Chiedo scusa alle grandi domande –diceva W.Symborska – per le piccole risposte che vengono date”.
“Ma qual era la domanda?”
Un giorno apparve sui muri della metropolitana d’una città europea questa scritta: “Dio è la risposta”. L’aveva messa lì un credente, come una proclamazione “murale” della sua fede (sui muri si scrive di tutto, si sarà detto, perché non proclamarvi la mia fede?). Solo che qualche giorno dopo un’altra mano, sempre rigorosamente anonima, aggiunse: “…sì, ma quale era la domanda?” Come dire: se non nasce in cuore la domanda, a che serve la risposta? E risposta a chi e su cosa?
Sapienza significa anzitutto il coraggio della domanda, come attesa, bisogno, ricerca, rischio di pensare, voglia di capire con la propria testa… La fede, come la più alta espressione di sapienza, nasce da tutto ciò, da quell’interrogativo cruciale circa la propria vita e il posto che uno ha da occupare in essa perché abbia senso, circa la propria vocazione. Ed è sapienza se uno si pensa dentro un piano intelligente, opera di una mente intelligente, e con un progetto altrettanto intelligente da portare a termine, unico-singolo-irripetibile come unica-singola-irripetibile è la propria persona. Sapienza è capire che la propria felicità è tutta in quella realizzazione, e dunque è anche invitare il secondo graffitaro anonimo dell’episodio a non dimenticare la domanda, bensì a riscoprirla, e non fuori ma dentro di sé, come una password che l’introduce nel mondo di quel Dio che gliel’ha messa in cuore… Quel Dio che è domanda e risposta. Per questo “la sapienza val più delle perle” (Pr 8,11).
“Io ero la sua delizia…,
giocavo davanti a lui in ogni istante” (Pr 8,30)
È la Sapienza che parla di sé, con un’immagine singolarissima e del tutto inedita per noi che associamo di solito all’idea della sapienza l’immagine della persona in età, seria e compassata. Qui si parla di delizia, di gioco. Poiché essere sapienti vuol dire scoprire non solo la verità, ma la bellezza della verità, e sentirne tutto il fascino. Persino Dio, secondo il testo biblico, non resiste a questo incanto, e la chiama sua delizia.
Ma l’immagine del gioco è ancor più inedita e sorprendente per noi, figli o nipotini di un serioso e presuntuoso neo-illuminismo. Richiama l’idea della libertà o di ciò che si fa per attrazione, della passione della ricerca, del gusto di scoprire con le proprie mani ciò che è vero e bello e buono… In fondo sapienza deriva dal latino sàpere, che vuol dire gustare, assaporare, godere. E dunque significa per noi – cercatori prima presuntuosi e poi sempre più scettici della verità – disporci alla ricerca, anzitutto, e non continuare a copiare o ripetere cose dette o scoperte da altri, né a credere senza pensare e nemmeno ad aver paura dei dubbi. Non solo, ma ci sprona anche a educare i nostri sensi perché impariamo a dire, sentire, toccare, vedere, annusare e gustare la verità e ogni suo frammento, senza pretendere di scoprirla tutta fin d’ora. Sapienza è non “perder i sensi” che ci sono stati dati proprio per questo, perché diventiamo sensibili e impariamo a “giocare” con la verità, a trovarvi distensione e delizia. Come Dio….
“Dammi la sapienza…” (Sap 9,4)
E allora il credente con umiltà chiede a Dio tale dono, perché “sappia che cosa ti è gradito” (Sap 9,10). Ovvero, è sapiente non chi si accontenta di sapere cosa è lecito o proibito, ma chi è libero di fare ciò che piace al suo Dio, o chi lo ama al punto di gustare di far le cose per amore suo, assumendo questo modo d’essere come stile abituale di vita e di relazioni.
Uno stile segnato dalle caratteristiche che un altro libro biblico attribuisce alla “sapienza che viene dall’alto”, che è “pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera” (Gc 3,17). È curioso che non vi sia alcun riferimento – come verrebbe spontaneo – all’aspetto intellettuale della sapienza, cui vengono invece attribuite qualità relazionali: pace, mitezza, arrendevolezza, mitezza, imparzialità… Si direbbe che tale sapienza è più relazionale che razionale, crea rapporti e li purifica, fa vivere la qualità delle relazioni perché giungano alla verità. Ecco perché tempi d’imbarbarimento relazionale come i nostri sono anche tempi di grande smarrimento, quasi di esilio della sapienza e dell’uomo saggio.
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