STORIE DI VITA - Mondo Voc febbraio 2012                                                 Torna al sommario

 

 

Quando un campo-missione cambia la vita

La storia di Silvia, una giovane ragazza romana, che grazie ad un’esperienza missionaria in una baraccopoli del Kenia ha riscoperto la gioia di vivere, del donarsi agli altri e i veri grandi valori della vita. 

di Michele Pignatale

missione_keniaNon stupisce che molti giovani d’oggi partecipino ai fenomeni di massa  come può essere in questo nostro tempo il fenomeno tecnologico-informatico. Lo stesso è avvenuto per le generazioni precedenti, come per esempio quella delle grandi firme come Armani, Trussardi, Coveri ed altri. Ed era tutto un pullulare di giacche monclear, di scarpe Timberland, di camicie con determinati colli ed un numero sconfinato di fibbie, borchie, cinghie, nastri, cappelli, per dare ad ognuno la propria espressione di personalità. E così oggi la storia si ripete con l’iPhone, iPad, Play station. Mi sembra che il significato sotteso a questa domanda è che i giovani sempre più desiderano identificarsi in un mondo di successo, in un mondo alla moda, che li fa sentire vivi, al centro del progresso, al centro di uno stadio avanzato di espressione della personalità. Poi, certo, c’è anche il problema del lavoro che non c’è, della precarietà che offusca il futuro. Sembra che non ci sia spazio  a percorsi  che favoriscano l’uscita dal proprio guscio, ponendosi obiettivi più ampi, più importanti, più esigenti, più comunitari; che questo tuffarsi nell’uso sfrenato di strumenti tecnologici privi i giovani di stimoli interessanti e di sollecitazioni forti rispetto al mondo che li circonda.


Controcorrente
missione_kenia_2Ma dentro a questo mare di complessità ci sono isole sempre più numerose che emergono per il loro andare controcorrente che non significa chiudere gli occhi al progresso ma dare il giusto posto alle nuove conoscenze, usandole per quello che possono servire per accrescere buone relazioni, nuove conoscenze oltre i propri ambiti di vita, allargando sempre più quello spazio esperienziale capace di  indurre a partecipazioni ed emozioni comunitarie.


Anche Silvia, giovane romana, studentessa in medicina, non si sottrae a questo tempo così ricco di contraddizioni, ma cerca di viverlo senza lasciarsi incantare dalle sirene delle apparenze, aiutata in questo da un clima familiare ricco di valori, da un’esperienza parrocchiale arricchitasi nel tempo attraverso tanti momenti ed in ultimo da avvenimenti che il caso, alle volte tragico, ha voluto che lei vivesse per maturare scelte e stili di vita nuovi.

Frequentavo una famiglia amica che aveva due splendidi figli piccoli – comincia a raccontare Silvia – a cui ero molto affezionata. Con loro e con la loro famiglia passavo molto tempo. Poi un giorno una drammatica tragedia successa nel giardino di casa, portò via uno di loro. Fu un colpo durissimo per tutti. La famiglia, pur afflitta da un dolore immenso, pensò di ricordare il proprio bambino con una realizzazione che potesse portare aiuto ad altri bambini. E attraverso un Padre comboniano furono indirizzati ad aiutare un Istituto di suore che erano presenti nella baraccopoli di Nairobi, intente a costruire  una scuola e un refettorio per i bambini  del luogo. Si raccolsero fondi tra amici e conoscenti e furono inviati i primi aiuti che servirono a costruire lo scheletro delle strutture. Naturalmente la famiglia era desiderosa di conoscere i destinatari dei loro aiuti e rendersi conto di quali altri bisogni fossero necessari. Così programmarono un viaggio in Kenya. Ma desideravano essere accompagnati da alcuni giovani che potessero essere di aiuto sul luogo. Anche a me fu ventilata la proposta. In quel periodo stavo vivendo con difficoltà il cambio di indirizzo all’Università e non avevo il coraggio di chiedere alla mia famiglia il permesso di lasciarmi partire. Ma i miei comportamenti lasciavano trasparire qualcosa e così qualche settimana prima della partenza, mio padre mi chiese se ci tenessi a partire col gruppo e dalla reazione del mio viso capì che doveva lasciarmi andare. È stata un’esperienza sconvolgente dal forte impatto non solo emotivo. Avevo sentito parlare della famosa baraccopoli di Korogocho , ma mai immaginavo di trovarmi davanti a situazioni così gravi di miseria. Al ritorno da quel viaggio la promessa che ci sarei ritornata”.

missione_kenia_3Sono passati tre anni da quel viaggio e a Silvia si ripropone di ritornare in Kenya. Questa volta è tutta la sua famiglia ad accompagnarla ed un’altra ventina di persone che si fermeranno per un Campo-missione promosso dalla neonata Onlus in memoria del bambino tragicamente scomparso.


Questa volta l’approccio alla realtà è per Silvia molto diverso. C’è più consapevolezza di quello che si deve fare e naturalmente collabora a quelle che sono le iniziative che le stesse suore intraprendono nel loro servizio di apostolato. Una particolare gioia la invade nel vedere le strutture che tre anni prima erano solo scheletro, completamente terminate in maniera davvero invidiabile. Il programma prevedeva incontri con i bambini del luogo che giorno per giorno aumentavano come formiche, poi visita nelle baraccopoli e alla struttura delle suore di Madre Teresa che raccolgono bambini abbandonati in modo particolare portatori di handicap.


Rinascere
Pensavo di non farcela – continua il suo racconto Silvia – stando vicina a bambini con cui la natura non è stata benigna. E invece mi sono stupita di me stessa per come ho saputo reagire e di come ho potuto stare con loro nello svolgersi della loro quotidianità. Vedere l’aiuto reciproco fra sani e disabili nel fare le piccole cose come il mangiare, il vestirsi, giocare mi ha fatto molto riflettere. Naturalmente tutta l’esperienza che porto nel cuore ha contribuito a un deciso cambio di passo nella mia vita che mi ha fatto rinascere. Ho potuto capire il valore dell’umiltà, del relativizzare i tanti problemi che ci assorbono inutilmente. Avere pazienza e vivere rapporti più essenziali con gli amici e con le persone che mi circondano. Assumere un comportamento più sobrio anche nell’uso delle cose. Ho potuto valorizzare la preghiera soprattutto come intercessione per gli altri. Non posso non ricordare gli sguardi teneri, gioiosi e malinconici dei bambini. Io prima non ero capace di allargare la mia preghiera. Ora ne sento il bisogno. Come anche vivere l’Eucarestia con attenzione, io che ero afflitta dalla distrazione facile. Sono rimasta colpita dalla celebrazione  eucaristica  in Africa dove c’era una partecipazione corale dai bambini ai giovani, agli adulti. Tutti avevano un ruolo e tutti prestavano la massima attenzione. Era una manifestazione di gioia e un momento di ascolto e di silenzio. Pensavo alle nostre celebrazioni tristi e abitudinarie. Come se il mistero non ci toccasse direttamente, solo spettatori. Credo che questa esperienza sia un tassello importante per la mia vita che spero si dispieghi secondo la volontà di Dio”.

 

 

 

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