STORIE DI VITA - Mondo Voc marzo 2011 Torna al sommario
EDITH BRUCH
La scrittrice scampata alla Shoah
di Vito Magno
Scrivere romanzi e poesie nasce per lei dall’intento di raccontare le toccanti testimonianze vissute sui campi di sterminio nazisti e dall’inconscia speranza di alleggerire il peso interiore. Edith Bruch è nata in Ungheria nel 1932 da una famiglia di ebrei poverissimi. Ha vissuto appena dodicenne il trauma della deportazione ad Auschwitz, Dachau e Bergen Belsen. Orfana, con la famiglia decimata dai nazisti e senza nessuno che si prendesse cura di lei, ha affrontando mille mestieri ed è approdata in Italia nel 1954. Da oltre mezzo secolo è sposata con il poeta e regista Nelo Risi.
Quanti anni aveva quando fu deportata ad Auschwitz?
Dodici anni e mezzo. Fui prelevata assieme ai miei genitori e ai miei fratelli. In famiglia eravamo in 6, ma due delle mie sorelle vivevano a Budapest con documenti falsi.
Chi di voi si è salvato?
Io, mia sorella e mio fratello.
Cosa avvenne quando mise piede al lager di Auschwitz?
Mia madre fu subito messa nella fila di sinistra, quella destinata al crematorio. Mio padre morì di stenti nel campo di concentramento il 6 marzo del 1945.
Che ricordi ha del lager?
Il campo di Auschwitz era un’immensa industria della morte. Soltanto dove mi trovavo io, nel lager C, c’erano 32 baracche che contenevano 2000 donne. Ai due lati una fila grandissima di baracche, in mezzo la latrina, e le baracche divise da un lunghissimo viale dove si faceva l’appello ad ogni alba e alle cinque di ogni pomeriggio.
Rimase sempre ad Auschwitz?
No, fui deportata in diversi campi. Ad Auschwitz sono rimasta 3 mesi, perché non era un campo di lavoro, ma di sterminio. Il lavoro che al massimo si faceva era quello di trasportare i bidoni di escrementi della latrina.
Da quali altri campi è passata?
Sono stata a Dachau, e a Bergen Belsen, dove fummo liberati.
Che lavori le facevano fare?
Lavoravo alla ferrovia portando traversine pesantissime. In seguito ho scavato buche e ho trasportato cadaveri nella tenda della morte. Il lager era pieno di cadaveri, di uomini nudi morenti o morti. Il lavoro era quello di alzare una piramide di morti in una tenda enorme. Questo è stato il lavoro peggiore che abbia mai fatto, anche perché alcune di quelle persone,non ancora morte, riuscivano a dirmi nome e indirizzo.
Delle atrocità a cui ha assistito, quale le è rimasta più impressa?
Il momento in cui mi separarono da mia madre, subito dopo l’arrivo.
Come è avvenuto?
Sono stata messa nella fila di sinistra assieme a mia madre, destinata alla morte, ma l’ultimo soldato tedesco, nell’intento di salvarmi, si avvicinò e mi sussurrò di andare nella fila di destra, quella destinata ai lavori forzati.
Quale domanda in quell’inferno la tormentava maggiormente?
Quello che mi feriva terribilmente, ed ancora oggi mi tormenta, era il chiedermi come poteva accadere una cosa del genere. Essere dimenticati dal mondo, da Dio, da tutti e da tutto! Essere esclusi! Mi vergognavo di essere persona. Come poteva succedere? Ancora oggi me lo chiedo.
A cosa deve l’essere sopravvissuta alla Shoa?
Al caso, all’avere mantenuta viva la speranza di sopravvivere, alla fortuna di avere incontrato persone disposte ad aiutarmi, che guardandomi mi hanno, per esempio, allungato una patata.
Una patata?
Un tedesco, durante una lunga marcia, mi chiamò e mi diede una patata calda. Eravamo stremate dopo avere camminato per mille chilometri. Durante la marcia avevamo mangiato cumuli di immondizia, scorze di alberi, sterco secco delle vacche. Cose oggi inimmaginabili! Il soldato tedesco mi chiamò e mi ha disse: “Vieni qua, piccolina”, e mi diede una patata calda. Sentii allora che la mano di Dio si allungava verso di me. Nei campi di concentramento un gesto del genere era un miracolo, come a Dachau quando un cuoco mi chiese come mi chiamassi. Anche quella era una cosa inimmaginabile, perché nei lager eri soltanto un numero. Sentirsi dire “come ti chiami?”, dopo 8 mesi che mi chiamavano 11552, era un miracolo.
Che ripercussioni ha avuto la Shoa nell’arco della sua vita?
Ha influito nei rapporti con gli altri, nel lavoro, nella famiglia, nel matrimonio. Ha avuto ripercussioni dappertutto. Anche perché dopo la guerra noi deportati siamo stati visti come qualcosa di molto scomodo per la coscienza europea. Non sapevano dove metterci, cosa fare di noi. Ci era negata l’accoglienza. Abbiamo vagato da un Paese all’altro per diversi anni. Io, per esempio, ho vagato fino al 1954, quando sono giunta in Italia per imbarcarmi verso l’Argentina, dove abitava una mia sorella. Invece poi sono rimasta in Italia.
Dunque ha dovuto rifarsi la vita da sola!
Da sola, non soltanto perché senza più famiglia; sola perchè abbandonata dall’umanità. C’era in me una sensazione molto dolorosa quando sono tornata su un vagone di carbone nel villaggio da dove provenivo. Ma da lì, insieme ad altri deportati, ci hanno cacciati via perché dicevano: “gli ebrei hanno portato il comunismo!”. Non avevamo terra sotto i piedi. Eravamo affamati, disperati, quasi ci pentivamo di essere sopravvissuti! Finché, finalmente, mi sono fermata in Italia, dove abito da oltre 53 anni.
Qui scrive romanzi e poesie!
Non solo! Ho fatto televisione, radio e film. A causa della mia tragica esperienza mi preoccupa doppiamente tutto quello che accade nel mondo. Il razzismo, la discriminazione, le oppressioni, la fame nel mondo, la morte degli innocenti non sono finiti, purtroppo! Non è che con Auschwitz è finito qualcosa. E ciò è molto triste! Una mostruosità del genere non è stata in grado di dare una svolta. Milioni di morti non sono serviti a niente. Morti non soltanto ebrei, ma anche zingari, omosessuali, minorati. Sono morte 11 milioni di persone in ben 1634 campi di concentramento.
Pensa che la Shoa possa ripetersi?
Non in quel modo e in quella misura: uno sterminio preparato a tavolino, da ragionieri della morte. Non penso possa più accadere una cosa del genere. Accadono, purtroppo, ancora oggi, cose terribili, ma non per anni, e non uccidendo bambini e vecchi a milioni; bruciati, usati come grasso per fare sapone! Cose agghiaccianti!
E mai tornata sui luoghi della tragedia?
Sonno tornata a Dachau dopo 40 anni. Mi sono fermata, assieme ad una mia amica, in una birreria vicino all’ex lager e di proposito ho chiesto ad alcuni uomini sui 70 anni, e che quindi avevano vissuto l’orrore della Shoa: “Dov’è il Memorial?”. Mi hanno risposto di non saperlo. È molto triste questo! Non avevano ancora fatto i conti con il passato. Ma non l’ha ancora fatto la coscienza civile europea, perché forse gli riesce impossibile spiegare quello che è successo. Questa è la cosa più triste: potremo scrivere mille libri, ma non potremo mai esprimere veramente quello che sentivamo dentro, un’immensa vergogna per l’umanità. Guardavo con immensa pena i soldati nazisti. Eravamo davanti a loro nudi per la disinfestazione, con le braccia alzate, come vermi, in pieno inverno, e loro ci sputavano addosso, sputavano sul nostro sesso, sui nostri capezzoli. Ed io dicevo: “Dio mio, non sanno quello che fanno!”. Mi vergognavo per loro, che avevano ancora faccine da latte. Una cosa penosa, terribile. Come era possibile che un uomo, un dittatore, avesse ridotto un popolo a quel punto, a inculcare l’odio fino a quel punto! Ed è altrettanto triste costatare che la storia non ha insegnato nulla!
Nel romanzo “Chi ti ama così”, lei scrive: “La vita è un intreccio di fili spinati”. Ma la speranza riesce a passare tra questi fili?
Non sono una persona disperata, infelice. Vivo, come lei, come tutti. Cucino, faccio la spesa, rido, gioco al “Gratta e vinci”… Però il passato non deve essere dimenticato, perché non accadano più cose del genere. Occorre illuminare le coscienze!
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