STORIE DI VITA - Mondo Voc febbraio 2012 Torna al sommario
SANDRO SPRIANO
Il prete dietro le sbarre
È da 22 anni cappellano del carcere romano di Rebibbia, dove vivono 1700 detenuti. Nato 72 anni fa nel Monferrato piemontese da una famiglia di contadini artigiani è sacerdote da 46 anni. Nel 1968 si trasferì a Roma per gli studi e per lavorare in parrocchia. Quando poi, nel 1991, i frati che erano cappellani del carcere di Rebibbia lasciarono l’incarico accettò dal Cardinale Ruini di sostituirli.
di Vito Magno
Che luogo è per un prete il carcere di Rebibbia?
Lo considero una parrocchia. Quando entrai per la prima volta nel carcere mi immaginavo i detenuti appartenenti a categorie in base ai reati commessi e, invece, mi dovetti rendere conto che erano persone uguali a quelle fuori che però avevano commesso dei reati. Così, da quel momento è cominciata la mia attività pensando di impostarla proprio come avviene in una parrocchia, privilegiando innanzitutto la testimonianza della carità, perché normalmente le persone del carcere vengono dalla povertà, dall’emarginazione, sono bisognosi di tutto, soprattutto di affetto e di amore. Chiaramente non faccio mancare l’annuncio cristiano che si esprime in tanti modi, come del resto in parrocchia.
Com’è la vita di un prete in galera?
È una vita molto vera, nel senso che come prete qui posso testimoniare solo quello che vivo, non posso fare né il professore, né parlare di cose che non vivo, perché chi non ha più niente da perdere si accorge immediatamente se ciò che dico lo dico perché faccio il prete o perché le vivo. Addirittura mi fermano durante l’omelia dicendo “ok, ma traduciamo quello che stai dicendo”; questo ha migliorato molto la mia fede. Certo non sono diventato santo, ma l’ha migliorata tantissimo perché sono costretto, in senso buono, a parlare e a vivere prima di parlare.
Può descrivere la sua giornata tipo?
È variata un po’ in questi anni perché all’inizio vivevo praticamente le 24 ore dentro al carcere, in quanto dovevo entrare all’interno di un mondo che ha molte regole, molti divieti e molte sbarre, ma anche molti detenuti e altrettante persone che ci lavorano. Entrare nei loro meccanismi mi ha richiesto tanti anni di vita in comune. Ho capito che il carcere, come istituzione, impedisce di fare qualsiasi cosa, e la testimonianza diventa poco efficace. Ho vissuto i primi anni 24 ore al giorno “dentro” per entrare nella mentalità degli agenti e in quella dei detenuti, e soprattutto per capire le regole del carcere.
Oggi invece?
Non faccio le 24 ore “dentro” perché avendo messo in piedi un accompagnamento dei detenuti, che significa cooperativa di lavoro, casa di accoglienza e contatti con le famiglie, lavoro anche fuori. Quindi al mattino mi dedico a queste attività per far aumentare le opportunità di reinserimento dei detenuti, con la cooperativa, i volontari, l’associazione e la casa alloggio: il pomeriggio lo dedico ai colloqui con le persone. Chiaramente, poi, “dentro” si celebra anche l’Eucaristia, ci sono momenti di preghiera comune, si fanno le riconciliazioni comunitarie, insomma tutto quello che si fa in una parrocchia, ma privilegiando il colloquio interpersonale.
Che cosa la gratifica di più?
Mi gratifica il fatto che anche un piccolo gesto di avvicinamento viene ripagato con affetto, con riconoscenza e con sincera ammirazione da parte di tutti quelli che ci cercano. Inoltre mi gratifica il fatto di non dovermi caricare di apparenza, che a volte fuori è necessaria, lì basta che sono quello che sono, perché tratto non con carte ma con persone, anche se la burocrazia è tanta. Ciò che fa pensare è che ho sempre davanti persone al limite della sopravvivenza e che occorre far presto per poterle fare sopravvivere.
Che cosa più la mortifica?
Nulla a livello personale. Ciò che mi mortifica è il fatto che siamo di fronte a persone per le quali l’interesse del governo, della politica, dei cittadini liberi è scarsissimo, e quindi a volte gli sforzi che si fanno tra volontari e cappellani non raggiungono risultati soddisfacenti perché siamo lasciati soli. Io dico spesso che se noi cristiani non cambiamo mentalità a proposito di giustizia, concepita alla stregua dei tribunali e non del Vangelo, tutto quello che si può fare dentro un carcere è davvero poco. Questo mi mortifica perché mi piacerebbe che tutti riconoscessero il fatto che abbiamo in carcere persone, non esseri da abbandonare a se stessi.
Qual è la maggiore sofferenza di un carcerato?
Lo dico ripetendo le parole di un ragazzo malato terminale di Aids, morto in carcere: “Io sono stato abituato qui dentro e nella mia vita a sopportare qualsiasi cosa, dalle botte alle umiliazioni, alla fame, ma c’è una sola cosa che non riesco ad accettare: di non aver nessuno che mi voglia bene”. Quindi, questo è ciò che più fa soffrire le persone in carcere: le famiglie sfasciate, l’abbandono, la mancanza di amore.
Immagino anche la sofferenza delle mamme a cui vengono tolti gli affetti dei propri bambini!
Sì, questo è un altro aspetto importante, difatti la carcerazione delle donne, e in particolare delle mamme, è molto più problematica di quella degli uomini: dove l’uomo a un certo punto se ne fa una ragione, la donna, per una sensibilità diversa, più acuta e più materna, non riesce a farsela.
Come cappellano ha parola nel percorso di rieducazione dei detenuti?
Per fortuna dal punto di vista ufficiale e giuridico no. Una volta i cappellani erano partecipi, con la loro firma, ai giudizi sul comportamento dei detenuti e sul loro percorso. Oggi abbiamo parola per i magistrati, per le direzioni, per gli educatori ma, fortunatamente, non scritta, non firmata, questo ci rende liberi con i detenuti, ed essi si sentono tranquilli nel parlarci delle loro storie. Se sapessero che i cappellani sono tra quelli che firmano la loro libertà o la loro condanna, non ci sarebbe più un rapporto vero.
Tra chi ha commesso grossi delitti, le capita di incontrare irrecuperabili?
No. Lo dico con forza, non c’è nessuno che non sia recuperabile; ci sono persone che faticano ad ammettere i propri errori e allora lì diventa difficile poter recuperare, ma non c’è nessuno che sia irrecuperabile, tant’è che io mi lamento spesso, anche pubblicamente, che tutti coloro che sono condannati per associazione di stampo mafioso non abbiano diritto al trattamento penitenziario: per la legge devono solo scontare la pena e basta, e questo, secondo me è sbagliatissimo. Ricordo che uno di loro mi ha detto: “È la prima volta, Padre, che mi sento dire che l’omicidio è comunque e sempre un male, prima ho sempre pensato che l’omicidio, rispetto alla necessità di raggiungere un bene più alto, per i miei progetti o per quelli di una comunità, deve essere fatto”.
Quanti deviati pensa di aver restituito alla società?
Non glielo saprei dire. Certo, abbiamo aiutato molte persone, soprattutto dei giovani che continuiamo a seguire e che ad oggi vivono in maniera totalmente nuova. I numeri non sono sicuramente alti, ma non saprei quantificare; so dirle che le persone accompagnate di cui ci facciamo carico, in maniera affettiva e concreta, vengono tutte recuperate con successo.
Qualche volta si sente inutile?
Di fronte a certi problemi sì, nel senso che faccio delle scelte, metto in atto dei cammini che a volte vengono bruscamente interrotti dalla burocrazia o da incomprensioni giuridiche; oppure mi sento inutile di fronte a persone talmente povere, malate e problematiche psichicamente che ogni sforzo risulta vano.
Che percentuale ha di fedeli alla Messa?
Abbiamo una partecipazione all’Eucarestia festiva che si aggira intorno al 30% dei detenuti. Abbiamo la fortuna di celebrare in 17 posti diversi nel carcere ogni settimana, con l’aiuto di bravissimi preti e seminaristi. La possibilità di avere un prete che parla tutte le settimane rende tutto più facile. La cosa più bella che ci succede è che spesso c’è qualcuno che, dopo la Messa, viene a dirti “grazie per ciò che hai detto”: in parrocchia non mi capitava quasi mai.
Confessa?
Riesco a fare diverse confessioni. Quattro volte all’anno celebro la Riconciliazione comunitaria: circa 300 detenuti vi partecipano e la metà di loro in quell’occasione fa anche la confessione individuale. Parecchi non hanno fatto prima di allora cammini di fede e quindi la celebrazione serve come un’iniziazione cristiana.
Ha posto un termine alla sua missione?
No, anche se so che a 75 anni dovrò rassegnare le dimissioni come tutti i sacerdoti diocesani, però per questi anni che ancora ho davanti, penso che se il Cardinale Vicario non mi chiamerà a fare altro, continuerò molto volentieri a fare ciò che faccio.
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