maniDicembre 2012

Incontro tra monaci benedettini e l’islam sciita

Un dialogo di spiritualità

In questa intervista, Timothy Wright descrive come è nata e si è sviluppata l’idea di un dialogo tra i monaci benedettini e l’islam sciita. Dialogo che va dai temi di teologia ed etica a quelli di spiritualità, in uno stile di amicizia e di reciproco ascolto.

Timothy wright è stato abate di ampleforth, abbazia in stile neogotico, uno dei cardini della rinascita del monachesimo in inghilterra. Vi fu abate anche il celebre cardinale hume, uomo di punta al concilio vaticano ii. Timothy è stato direttore spirituale del collegio beda a roma e per conto dell’abate primate s’interessa e cura le relazioni con il mondo islamico.

Gli chiedo come gli sia venuta l’idea di aprire un dialogo sincero e amichevole con l’islam sciita.
«Seduto al tavolo del mio ufficio, quand’ero abate di ampleforth, prima che finisse il millennio, ricevetti una telefonata da uno dei quattro padri che lavorano in una parrocchia. Mi disse che aveva un iraniano che studiava per conseguire un dottorato in etica all’università di manchester, il quale desiderava visitare l’abbazia: sarebbe possibile? Certamente, risposi. Alcune settimane più tardi, venne e incominciammo a parlare: demmo inizio a una immediata amicizia e lo invitai a dare alcune conversazioni alla comunità monastica sulla spiritualità sciita. Cosa che sorprese un poco i confratelli, ma, dopo la prima conversazione, tutti furono meravigliati della sua genuina spiritualità, la sua comprensione della spiritualità benedettina e la sua capacità di comunicare le idee chiave della spiritualità sciita con parole e concetti che noi comprendevamo».

Che avvenne dopo?
«Mi invitò a visitare qom, città dell’iran di circa un milione di abitanti. Era verso il 2000. Andai con un altro membro della comunità benedettina e passammo all’incirca una settimana a discutere e dialogare con diversi imam e ayatollah di qom. Lo scopo del dr. mohammad ali shomali era di ottenere il permesso di lanciare congiuntamente una conferenza nel regno unito per un dialogo benedettino cattolico-sciita. Ricordo una difficile conversazione con l’ayatolanilah più anziano; pensavo fosse la fine di questo sogno. Tutto il contrario. La mia risoluta difesa della nostra posizione nei confronti della vita spirituale benedettina lo incoraggiò a dare luce verde alla conferenza.
Il primo incontro si tenne nel 2003 su questioni riguardanti teologia e spiritualità; si iniziò con una conferenza di un giorno all’heythrop college, un settore dell’università di londra e una conferenza di tre giorni residenziale nell’abbazia di ampleforth, che si trova a circa 35 km a nord-est di york, a metà strada tra londra e edimburgo. La conferenza trattò delle aree chiave della spiritualità monastica e della spiritualità sciita, in rapporto più stretto con la nostra vita monastica.
La seconda conferenza si tenne nel 2005, negli stessi luoghi, su fede e ragione nella teoria e nella pratica.
La terza si tenne nel 2007 nell’abbazia di worth, a sud di londra, non lontana dall’aeroporto di gatwick su l’etica nella società di oggi. Da queste tre conferenze vennero alla luce tre libri pubblicati da melisende (londra).
Poi venni a roma per lavorare per conto dell’abate primate dei benedettini, notker wolf, facendo ricerche sulle relazioni benedettine-islamiche . Poiché non poteva pagarmi in denaro, mi sono gentilmente offerto di assumere il compito di direttore spirituale nel pontificio collegio beda, che mi pagava abbastanza, tanto da coprire i costi del viaggio nel periodo delle vacanze e mi dava la opportunità di fare ricerche su tutta la questione della spiritualità benedettina e islamica. Ho terminato l’opera agli inizi di quest’anno e ho ricevuto il dottorato in filosofia all’università del galles.
A roma ebbi un po’ di tempo per riprendere il dialogo con qom. Sotto gli auspici del comitato monastico del dialogo interreligioso (mid, dialogo interreligioso monastico) e il suo segretario generale, william skudlarek osb dell’abbazia di st. john, collegeville, usa, fu organizzata la quarta conferenza a sant’anselmo (roma) nel 2011. Si entrava in una nuova fase: il dialogo era ora più incentrato sulle questioni monastiche e in parte ristretto: dieci partecipanti per parte. Il tema includeva elementi di spiritualità sciita e benedettina e i lavori sono stati pubblicati con il titolo: monaci e sciiti in dialogo di spiritualità (liturgical press, collegeville).
Ne è seguita la quinta conferenza, quest’anno, incentrata sull’amicizia con il titolo creare comunità di amicizia. Per la prima volta il dialogo si è tenuto in iran, a qom, nel nuovo istituto di mohommad ali shomali, di recente fondato: istituto internazionale per gli studi islamici, dove i membri potevano comunicare in inglese. Ancora una volta i partecipanti benedettini hanno avuto la possibilità di lavorare a qom e trascorrere giorni di calda ospitalità, con reciproci scambi di dialogo e momenti di silenzio alla presenza dell’unico dio, che si è rivelato alla razza umana, che ama ognuno individualmente ed è felice di dispensare misericordia e perdono a coloro che si pentono delle loro colpe. Lo stesso numero di partecipanti nel dialogo, al quale si sono aggiunti altri membri del nuovo istituto.

Chiedo all’abate timothy quali pensieri gli passassero per la testa nel corso di queste conferenze di indubbia importanza e un poco complesse.
«Andavo riflettendo con sempre maggiore profondità sulle relazioni tra la spiritualità monastica, le cui origini vanno indietro nel tempo e risalgono ai monaci del deserto. Era mio intento sottolineare la stretta connessione tra la spiritualità islamica e la mia spiritualità».
Che cosa andava scoprendo? «La spiritualità islamica crebbe nello stesso ambiente desertico dell’arabia. Difatti, il profeta voleva stare nei monasteri quando percorreva le strade commerciali dalla mecca a damasco a servizio della sua futura moglie. I monasteri lungo il percorso dei commercianti davano loro ospitalità. Fece quindi l’esperienza della vita monastica specialmente della calda accoglienza, della preghiera, dell’affidamento alla parola di dio, del suo ascetismo.
Dopo le rivelazioni al profeta, la spiritualità dell’islam emerse con molte caratteristiche della spiritualità monastica cristiana. Entrambe incentrate sulla preghiera ripetitiva, sul costante ricordo di dio, sulla recita dei testi sacri imparati a memoria, perché molti erano illetterati, e momenti di preghiera formale scandita nel corso del giorno e della notte. Erano le tecniche della spiritualità monastica e chiaramente riflettevano nella preghiera la vita dei musulmani, specialmente di coloro che dedicavano ore di preghiera quando cadevano le tenebre. Vi sono cristiani che pensano che il dio dell’islam sia distante; che sia, la sua, una rappresentazione profondamente errata: ogni musulmano conosce la rivelazione di dio al profeta: “Noi abbiamo creato l’uomo/noi sappiamo ciò che la sua anima gli suggerisce/ noi siamo più vicini a lui che la vena iugulare” (Corano 50:16)

Proseguendo la sua riflessione, lei trova un rapporto stretto tra la regola benedettina e la spiritualità dei “monaci” islamici?
«La regola di san benedetto fu scritta nel v secolo e teneva conto che la maggior parte dei monaci erano illetterati: da qui l’importanza di imparare i testi a memoria, di avere una regolare recitazione dei salmi, cosicché con il tempo i monaci li avrebbero imparati a memoria e avere dei lettori che potevano leggere a voce alta e chiaramente, di modo che la comunità potesse ricordare le parole. Questo è al cuore del comando, musulmano e cristiano-benedettino, di pregare sempre: possibile solo a coloro che conoscevano le preghiere, le scritture a memoria. I primi monaci recitavano l’intero salterio di 150 salmi ogni giorno, una disciplina degna di risurrezione in giorni speciali. Benedetto fu chiaro al riguardo. Li ridusse per lasciare spazio al lavoro, ma i 150 salmi si dovevano recitare nello spazio di una settimana. Lo stesso per le scritture dei musulmani e dei cristiani. Il corano è un po’ più lungo del nuovo testamento. Prese insieme queste tecniche rendono il monaco e il musulmano degni dello scintillante occhio di dio e li rendono in grado di rispondergli pregando sempre. La più grande “colpa” dei musulmani e benedettini è “dimenticare” che dio è “ sguardo e amore” nello stesso tempo».

Per concludere, signor abate, che le rimane da dire?
«Che da questa prospettiva appare chiaro che la preghiera monastica e la preghiera islamica sono in stretto rapporto. Ancora di più: mettono a disposizione una struttura che consente a dio di essere costantemente presente nella mente e nel cuore. È il motivo per cui il dialogo di spiritualità monastico-islamico è così importante. Permetterà di condividere le scritture ispirate con l’altro per un reciproco arricchimento, una più profonda e mutua fiducia, una maniera di promuovere la pace».

(a cura di Francesco Strazzari, su Testimoni 20 del 2012)