29 novembre 2013
La testimonianza di un prete "operaio" della messe.
Prete in fabbrica, non prete-operaio.
Tutto questo mi divenne palpabile con la tuta antiacido dell’aspirante operaio chimico addosso, ma era pur sempre mio bagaglio personale, non l’avevo ancora raffrontato con quello autentico della Chiesa. Non avevo evidentemente possibilità di studio su documenti che solo una ricerca in biblioteche specializzate poteva garantire; e tuttavia, riflettendo sul comportamento e sulle parole di Paolo riguardante il lavoro delle proprie mani come unica possibilità di un ministero gratuito, scopersi con gioia che tale scelta non era un fatto puramente personale, di Paolo, ma anche di Barnaba, coinvolgente tutti i collaboratori che, già impegnati nei lunghi viaggi, ricevevano sostentamento dal lavoro diuturno dello stesso Paolo. Potevo dire che col mio lavoro m’inserivo nella tradizione della Chiesa con le sue radici saldissime fin dall’inizio, se esso serviva a rendere gratuito il ministero? E non era la condizione per rendere credibile l’annuncio, in una società che presentava, in questo settore, sorprendenti analogie con quelle di Paolo? La già traballante, per il suo fondamento idilliaco, Théologie du travail, crollava completamente sotto i colpi della realtà che vivevo e che condividevo con i miei compagni, mentre per me prete il lavoro in sé immettendomi in piena umanità senza più nessun privilegio clericale, acquistava per il prete una dimensione di Chiesa che lo insediava al centro del mistero non extra moenia in qualità di esploratore e di libero battitore. Emarginato, invece, risultai a distanza di tre anni dal gruppetto di preti che cominciavano, con o senza benedizione del loro vescovo, a lavorare in fabbrica e chiamarsi, sull’ondata francese, preti-operai.
La mia visione del lavoro come necessità (e quindi qualsiasi lavoro: in fabbrica, in scuola, da professionista, artigiano, traduttore, eccetera) per sostentarsi, per me prete aveva l’enorme importanza di stabilirmi come cerniera fra quella che fu la scelta di Paolo come Chiesa nella gentilità e il comportamento della stessa Chiesa del XX secolo, erede della gentilità, per rendere credibile il messaggio, la buona notizia a essa affidata. Rifuggiva quindi da ogni leadership politico-sindacale (non dall’impegno sindacale, che è un’altra cosa, più un ascoltare che un parlare) che invece nel gruppetto predominava. La Chiesa non interessava più, era scontato che fra essa e la lotta operaia s’imponeva una scelta, che l’annuncio sarebbe arrivato successivamente alla giustizia ristabilita, alla sconfitta del capitalismo. Questa posizione era per me espressione d’un clericalismo che, smessa la sottana o il clergyman per indossare la tuta, continuava a spadroneggiare, nell’assoluta buona fede del nuovo prete operaio, certamente. Ma questo voler mettersi alla testa di situazioni ancora sconosciute, questo rifiutare come cosa estranea la Chiesa nelle sue strutture di potere che pure, fino al giorno prima, lo stesso prete aveva concorso a mantenere, quasi egli non vi fosse mai entrato, a me sembrava la riduzione a piccolo cabotaggio di contestazione, un piccolo ’68 clericale, di un’occasione storica irripetibile, o comunque non così immediata e spontanea che poteva far rivivere la tensione, con la gratuità del ministero, alla credibilità dell’annuncio.
Che cosa sarebbe avvenuto nella Chiesa se questi preti, sparuto gruppo ma anche di una certa presa sull’opinione pubblica, fuori e dentro la Chiesa, avessero legato il lavoro alla gratuità del ministero come fu all’inizio? Io ero in fabbrica e sperimentavo come quel tipo di lavoro potesse permettere l’attività cosiddetta pastorale. Con i turni che quotidianamente cambiavano (6-14, 14-22, 22-6) sempre 24 ore fra un turno e l’altro, ci sarebbero state buone possibilità di tempo per un’attività di aiuto parrocchiale se fosse stato necessario. C’erano infinite possibilità, in teoria, di mantenersi senza rinunciare a nessuna attività parrocchiale; bastava provare. Soprattutto, mi dicevo, bastava alzarsi un mattino e gridare davanti a Dio e alla propria coscienza, vescovo, prete, parroco o curato che si fosse: «Basta, da oggi tutto è gratuito, cápiti quel che vuole capitare».
(www.avvenire.it)