periferia14 Gennaio 2009

Don Enrico
"...Che sfida essere prete in periferia!..."


Ogni prete lo sa. Fin dal mattino, quando la nebbia gelata avvolge ancora i contorni delle cose, e i pensieri. Quando gira la chiave e il pesante portone della chiesa pigramente si accosta al muro, ancora una volta, un’altra volta. Ogni prete lo sa, il suo cuore glielo ripete, battendo ostinato. Anch’io lo so. Come si sa il sapore del pane, o la strada di casa. Anch’io lo so, mentre incrocio lo sguardo curioso della bimba velata, carica di libri, che si avvia verso la scuola.
O mentre un faticoso sorriso distende le rughe della nonna, tornata mamma per forza, nell’impeto di amore che le hanno chiesto le tempeste della vita.
Io lo so che Dio mi ha chiesto di restare qui. Di restare comunque, inutile e inadeguato, in mezzo a tanta gente dall’apparente frettolosa indifferenza, lontani quella distanza immensa che la Provvidenza ha disposto tra le nostre vite, che oggi solo si sfiorano – prudenti – sui marciapiedi del quartiere.
Piccola comunità cristiana di periferia, una periferia come tante, giovane storia di Chiesa fatta di coraggio e tenacia: poco più di duemila residenti, per due terzi in case popolari. Tanti bambini e ragazzi – tre volte la media della città – nati in famiglie immigrate musulmane. Saranno il futuro di questo quartiere, statistiche alla mano.
Tante giovani, giovanissime, mamme con gli occhi bassi, i jeans coperti dalle ampie tuniche scure.
Tante porte sempre chiuse, tanti inviti disertati, tanti silenzi imbarazzati tra parole in una lingua che non ha nulla di materno. E borse di generi alimentari ad assicurarci il faticoso accesso a un sorriso, riconoscenza che ( potendolo) si eviterebbe volentieri, per chi ne è debitore.
E poi le panchine e i muretti – ora coperti di neve – di solito occupati da giovani e adolescenti intirizziti, ma ostinati a resistere ai rigori invernali, in attesa di partenza verso locali del centro.
Piccoli mondi, periferie nella periferia della città, terra di tutti e di nessuno in cui si alimentano nuovi miti e nuove passioni. Luoghi in cui le parole hanno altri codici, e in cui i cristiani spesso dichiarano la loro resa. Cosa in realtà si stia compiendo, tra le pieghe del quotidiano, nella storia di questa porzione di Chiesa è conosciuto solo a Dio. A noi – a me – è dato di misurare, impazienti e un po’ miopi, lo schiaffo al nostro orgoglio, il fremito sottile che ci prende dinanzi alla lenta teoria delle consuetudini di una comunità che avanza in età, il vivo senso di sproporzione dinanzi al compito storico affidatoci.
Cosa potrà il Vangelo in questo confronto dai contorni così vaghi e sfuggenti? La fede ci invita a sperare. Qui la speranza scruta tra i frammenti di una realtà in rapida trasformazione, oltre l’apparente quieto scorrere dell’agenda parrocchiale.
Forse è così da sempre, nella vita di ogni prete.
Ogni prete, in cuor suo, lo sa da sempre di essere chiamato in prima persona a vedere l’invisibile. E, se ci riesce, impara a coniugare consapevolezza e incoscienza, saggezza e lucida ' follia'. Se un credente dal momento in cui accoglie la Fede come compagna di viaggio sperimenta l’ombra luminosa del mistero, un prete ne è il testimone, indifeso ed esposto come tutti, anzi più degli altri.
Le campane del mattino suonano, nella nebbia invernale. L’eco si avverte, ovattata, tra i palazzi di un quartiere in cui germoglia – inevidente – il Regno di Dio.

(don Enrico, Cremona, su Avvenire del 14 Gennaio 2009)