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gesu_santo_sacerdoteGennaio 2009

Ricerca di Avvenire sui preti di oggi: XLV puntata
La santità del sacerdote

Terminata la parte del nostro viaggio impiegata a esplorare il sacerdote nei suoi ruoli principali o più caratteristici, affronteremo ora un nuovo territorio, quello del prete "dei casi estremi". Ci soffermeremo così su alcune situazioni particolarissime, che proprio perché tali non sono affatto diffuse, e tuttavia quando si verificano hanno un impatto notevole nell’opinione pubblica: parleremo del prete che si scopre innamorato o omosessuale, e situazioni analoghe.
Ma prima di riprendere il viaggio sento il bisogno di una sosta tutta concentrata sulla santità del sacerdote, che – se intendo bene – è qualcosa di più della bontà: è infatti un camminare deciso verso l’imitazione di Cristo. Com’è noto non sono un maestro in spiritualità, e di per sé non sono neppure un credente, eppure oso addentrarmi su un tema che mi coinvolge ugualmente. Credo che della santità ci siano almeno due tipi prevalenti: la santità eroica e quella ordinaria. Eroico nella cultura greca era chi compie gesta straordinarie e irripetibili. Mentre, nella cultura delle origini cristiane, eroici erano in particolare i martiri, coloro che si sacrificavano per sostenere la propria fede. Ma sappiamo dagli atti dei martiri e dalla letteratura cristiana antica che vi è anche il martirio "bianco", cioè la condizione oblativa di chi non dà il sangue ma vive con la stessa disponibilità dei martiri: è un eroismo forse meno appariscente, ma che contempla comunque la rinuncia a ogni piacere umano seppur minimo, per guardare solo al Cielo. Analogamente esiste anche una santità silenziosa, domestica, fuori da ogni clamore. E in questa modalità, che esprime amore incondizionato e dedizione alla causa di Cristo, rientra generalmente il prete.

Ho conosciuto preti di bontà straordinaria, capaci di perdonare con il sorriso sulle labbra come se il perdono rappresentasse il più umano dei comportamenti; con una dedizione totale verso i propri fedeli, come se ciascuno di essi fosse un aspetto del volto di Cristo. Preti magnifici, che fanno commuovere per la coerenza e per il saper soffrire, nella certezza che anche il dolore è parte del piano di Dio. Preti che vivono già di paradiso; impegnati tuttavia ad aiutare gli uomini di questa terra . Nell’agire di alcuni di loro ho visto l’annullamento dei propri bisogni individuali a vantaggio sempre dei bisogni altrui. Con l’unica urgenza di adempiere la volontà di Dio, e di farlo qui e ora, con una predilezione particolare per gli ultimi, i più dimenticati. Per la verità, ho conosciuto anche preti con altri stili, che sembravano fare la bella vita, o avevano un ego mastodontico, preti che non disdegnano i simboli della ricchezza e del potere. Modelli di esistenza tra loro molto diversi, sui quali tuttavia è bene non sentenziare, giacché nessuno conosce fino in fondo le intenzioni del cuore. Non mi addentro qui nella distinzione tra santità canonica, ossia riconosciuta ufficialmente dalla Chiesa, e la santità quotidiana, che non fa miracoli e non ha bisogno di certificazioni, in quanto immagino sia qualcosa di ben noto. La santità finisce per essere una valutazione riconosciuta popolarmente anche quando è il risultato di una proclamazione della Chiesa, fatto che avviene dopo attenti processi e una analisi scrupolosa dei miracoli, che sono un elemento indispensabile per la santità canonica. Ecco, ci sono preti che non fanno miracoli valutabili da commissioni scientifiche, ma compiono miracoli che tali sono per chi senza quel sacerdote si sarebbe perso, senza quell’incontro e quel sostegno avrebbe perduto il senso dell’umanità, mentre ha scoperto la voglia di piangere e di pregare e di voler bene. Ci sono miracoli che, rompendo solitudini disumane, avvengono su persone che non avevano più nessuno, ed erano orami abbandonate a se stesse, e che ora grazie alla visita del prete, o di quanti il sacerdote invia, si scoprono come al centro di un’oasi di speranza. Santi in ragione della preghiera, poiché è indubbio – e ciò risulta anche a coloro che non credono – che la preghiera è atto di riconoscimento dei limiti per i quali il sacerdote scopre di non poter nulla a questo mondo senza l’aiuto di Dio; e allora lo prega di aiutarlo per aiutare il prossimo. E non c’è dubbio che colpisce più un prete che prega in una chiesa di periferia che il manager indaffarato sull’onda degli impegni che corre per arrivare in tempo, quasi che da lui dipenda il mondo intero.

Insomma, pur nella difficoltà per me a definire il prete santo, sono certo di avere incontrato sacerdoti che lo sono, e altri che pur puntando ad accattivarsi gli altri, all’opposto, non lo sono. E questo, se da una parte deve spingerci ad amare i preti che vivono tra noi mostrando una loro santità pur non eroica, dall’altra deve motivarci a maturare con coraggio una posizione chiara nei riguardi del sacerdote che lascia a desiderare. Proprio perché so stimare i comportamenti santi, devo sapere riconoscere quelli che non lo sono.

Amo i preti che mi permettono di valutare con la giusta severità il mio modo di essere e che mi suggeriscono come devo migliorare, perché è sempre possibile fare di più, e farlo con quella serenità che va a braccetto con la santità, e che non ingigantisce mai i propri meriti, quando sente piuttosto l’insoddisfazione per avere fatto poco, o comunque meno di quanto il prossimo avrebbe avuto bisogno. Amo la coerenza, la fatica, la gioia di sopportare la fatica se serve all’altro, e questo lo vedo in molti preti. Si danno da fare, si consumano dentro la gioia delle piccole cose, per le quali amano rinviare all’aiuto del Signore. Che amano ringraziare.
Questa sorta di contenimento del narcisismo, per altri versi dilagante nei nostri tempi, si contrappone all’incoerenza, alla flessibilità, all’infedeltà, segni di una cultura regressiva e rinunciataria sul fronte dell’essere. Ecco perché amo il prete, e questo prete, santo senza prosopopea eppure capace di dare l’esempio. E benché non siano i protagonisti di questo viaggio, non posso qui non ricordare i religiosi e le religiose, nel cui ambito ho potuto di persona riscontrare la presenza di testimonianze eccelse pur condotte nel nascondimento e nella totale semplicità delle forme. Santità minori? Non so minori a che cosa. Direi piuttosto una santità mite eppure sfolgorante, una santità povera eppure sontuosa, perché riferita alla magnificenza che è Cristo, uomo perfetto, il più bello e affascinante tra i figli dell’uomo.

La santità – verissimo – è prima di tutto pienezza dell’umano, e dunque sta all’opposto dell’astrattezza e dell’evanescenza. Non è fuga tra le nuvole, è incarnazione tra le storie degli uomini. I preti santi solitamente non disdegnano la compagnia umana, la familiarità con i fratelli. Certo, non si perdono nelle cose inutili o banali, non impegnano il loro tempo nelle chiacchiere vacue o salottiere, ma quando qualcuno li chiama loro prontamente ci sono. La santità è dedizione all’uomo e dedizione a Dio, in un unico movimento esistenziale, in un’unica tensione spirituale. Il prete santo è come un’arcata che unisce la terra al cielo, senza soluzione di continuità, lungo un binario segnato dalla preghiera di contemplazione e di supplica. Questi preti in genere non si mettono in mostra, non amano le vetrine: rispetto alla televisione, loro sono dall’altra parte. E così rispetto alla vanità, e all’ansia della visibilità.

I preti santi sono umili, talmente umili da accettare gli ordini che vengono anche dai preti non santi; anzi, essi non si pongono neppure simili questioni, non sanno fare le graduatorie, non misurano il livello della virtù altrui. Sono preti dell’obbedienza gioiosa, non problematica, non sofisticata. Sono preti che vivono la povertà, e infatti hanno continuamente lo scrupolo di consumare troppo, di trattenere troppe cose e troppi beni per sé. Sono preti casti, che non stringono legami appiccicaticci, sono celibatari nel cuore per essere a disposizione di tutti. E così si scopre che la via della santità passa realmente attraverso quelle promesse che il sacerdote fa nel giorno dell’ordinazione. Promesse che si presentano dunque non come scelte casuali, approssimative o generiche, ma come la via giusta per arrivare alla santità. È un errore pensare che la santità si traduca in un comportamento scontroso, remoto, lontano da tutti: solitamente il prete santo è uno che pur conoscendo il linguaggio della privazione sa di essere nella pienezza, nella serenità, anzi, nella gioia. Sì, perché c’è gioia anche nel dedicarsi al dolore, nel condividere le miserie, nell’asciugare le lacrime vere, non quelle di coccodrillo che troppo spesso fanno capolino anche nei nostri ambienti.

Dicevo all’inizio che m’è capitato, nella mia vita, di incontrare anche qualche sacerdote orrendo. La sua descrizione non mi avvince, è sufficiente peraltro percorrere all’incontrario le qualità del prete santo per avere evidenziate le caratteristiche del sacerdote ai nostri occhi non santo. Meglio non perdersi tuttavia in ciò che vale poco. Meglio anche per i non credenti riempirsi gli occhi della virtù, e della santità. Già, perché riscontrare attorno a sé la santità aiuta a vivere, e a vivere meglio. Nell’asperità del cammino della vita scorgere vicino persone sante, soprattutto se si tratta di preti santi, è un modo per ricevere coraggio, quello che serve per andare avanti. Il prete santo non è il prete dei capricci, e non è neppure quello che sarebbe più in vista se avesse avuto le occasioni più grandi. Non è il prete incompreso, che puntualmente fa la vittima di qualche superiore ottuso. Non è il prete svogliato, che farebbe di più se trovasse maggiore accoglienza. Non è colui che non compie peccati, ritiene piuttosto di averli già compiuti, e chiede perdono per non essere meglio di ciò che è, per non riuscire a fare di più.
Non voglio scadere nella retorica, ma il prete santo è una presenza meravigliosa, che merita di figurare nel novero dei giusti, di coloro che si battono per la giustizia e la pace, e sono di consolazione a quanti lottano per il bene e un futuro più degno.

(Vittorino Andreoli su Avvenire del 17 Dicembre 2008)