Marzo 2013
Un opportuno esame di coscienza
Insieme veracità e carità
ecclesiale e religioso?
Veracità nel parlare e nello scrivere è sinonimo di sincerità, semplicità, autenticità; è corrispondenza tra ciò che una persona pensa o sente e ciò che dice o scrive. La persona sincera dà una sensazione di trasparenza, favorisce il contatto con l’altro, rende facile e immediato ciò che vuole comunicare. Quando invece non c’è corrispondenza tra ciò che si pensa o si sente e ciò che si manifesta, la comunicazione si complica, nascono difficoltà e imbarazzo dovuti al fatto che si percepiscono due messaggi – uno esplicito e l’altro implicito (metacomunicato) – tra loro contrastanti e ciò, a sua volta, spinge l’interlocutore a comunicare in modo difensivo, strategico, superficiale. La mancanza di veracità nella comunicazione può essere cosciente e magari voluta in vista di qualche vantaggio personale, oppure può essere conseguenza di qualche meccanismo di difesa inconscio che rende difficile alla persona stabilire relazioni interpersonali profonde e gratificanti.
La carità nel parlare e nello scrivere, a sua volta, può significare diverse cose e avere nomi diversi. È attenzione e riguardo ai bisogni e alla sensibilità dell’altro, è responsabilità per il suo vero bene, è prudenza, è pazienza, è gentilezza, è amore per la verità. Guidati dalla carità, si tace una parte della verità che sarebbe inopportuno manifestare e che, taciuta, non guasta la parte di verità che si dice.
Quando mancano veracità e carità
Non è difficile, purtroppo, esemplificare situazioni e manifestazioni concrete nella vita quotidiana di mancanza di veracità e carità nel parlare o nello scrivere. Parole che manifestano una gentilezza formale (chiediamo a uno come sta, dando quindi l’impressione di essere interessati al suo stato di salute o alle sue vicende personali, quando in realtà… non ce ne importa niente), forme di ostentata deferenza, parole servili, apprezzamenti formali e non convinti, slogan vuoti e dichiarazioni retoriche che non corrispondono a ciò che veramente si vive dentro.
Accade, così, che una religiosa che si appresta a fare la professione perpetua scriva a parenti e amici: «Il Signore è penetrato violentemente nella mia vita, sconvolgendo i miei poveri progetti umani». Parole che lasciano perplessi coloro che la conoscono e che comunque sono avvertite come retoriche o semplicemente di moda in certi ambienti religiosi. Oppure, capita a volte che, alla conclusione del capitolo generale, si legga o si scriva sul Bollettino dell’Istituto che «si è avvertito veramente il passaggio dello Spirito ed è stata un’esperienza di profonda comunione », mentre poi si viene a sapere, in incontri privati e fuori dalle comunicazioni ufficiali, che sono stati giorni segnati da forti tensioni, invidie e gelosie, lotte di potere. Si auspica che il superiore che si sta per eleggere sia una figura “profetica”, quando basterebbe semplicemente augurarsi che sia un po’ ricco di umanità, un amico sincero e leale.
Altre volte non abbiamo il coraggio di manifestare quello che pensiamo e di fare rimostranze di fronte a palesi forme scorrette di procedere o a espressioni di vita ecclesiale non conformi al Vangelo per paura di non far carriera (male sottile anche negli ambienti ecclesiastici e curiali).
Si mente per calcolo, per paura, per abitudine; si ricorre a un linguaggio “diplomatico”, così che si dice e non si dice, si procede per allusioni e silenzi studiati, si finge di possedere informazioni o poteri che di fatto non si hanno o sono irrilevanti. Si cede all’adulazione e si arriva, in qualche caso a praticare “l’arte di strisciare”, quando non si ha mai un’opinione personale, ma solo quella del superiore, oppure si subisce ogni affronto o capriccio del superiore senza lamentarsi.
La mancanza di veracità risalta anche in ambito ecclesiale se si fa attenzione “alle tante enfatiche e velleitarie affermazioni autocelebrative, per cui quello che dice il papa è sempre parola giusta al momento giusto; le scelte ecclesiali sono sempre provvidenziali; i vescovi sempre premurosi, sensibili, illuminati; i laiciprudenti, vivaci, maturi; le comunità attente, impegnate, ecc. Tale contrasto, in realtà, finisce con l’alimentare abbondantemente un diffuso senso di frustrazione, all’interno stesso della Chiesa, e soprattutto tra i laici”. E l’ “ecclesialese” va prendendo piede: nei discorsi, e negli scritti si fa uso, e abuso, di termini come progetto e progettualità, dinamiche pastorali, ricadute, restituzioni (che si fanno seguire a particolari esperienze ed eventi pastorali), spaccati di vita quotidiana, intercettazione di domande e bisogni, mettere in circolo, abitare il tempo presente, “osare la verità del dialogo”… È difficile allora sfuggire a una sensazione di superficialità, pigrizia mentale e retorica: parole vuote, sentimenti taciuti, bisogni reali non manifestati, timori inespressi, critiche soffocate. Un altro spunto per la riflessione che stiamo facendo ce lo offre don Milani il quale, in una sua lettera a cui aveva premesso un titolo molto significativo, Un muro di foglio e di incenso, riferendosi espressamente agli ambienti ecclesiastici e in particolare ai vescovi, scrive: «La vita di un vescovo! Io ne so poco, ma me la posso immaginare perché conosco qualche sacerdote importante e anche qualche grosso militare e qualche grosso primario di ospedale. Parallelo al crescendo di importanza un crescendo di isolamento. In presenza a lui i giudizi andavano diventando ogni giorno più prudenti e più chiusi». Sembra a volte essere proprio questo il destino, cercato o non voluto evitare, di persone che sono collocate in posti di alta responsabilità: non si fa arrivare loro una informazione disinteressata, fuori delle vie comuni e ufficiali che sono menzognere e che, più ancora, tacciono sull’essenziale, per cui sono “condannate” a non “sapere”: un vescovo non sa quello che realmente pensa il suo clero, un superiore generale o un provinciale non sa quello che realmente pensano i membri del suo Istituto, un parroco non sa quello che la gente pensa di lui e come vive la sua presenza. Da quando si inizia un servizio di guida o si assume un ruolo di autorità, se non si vigila e non si creano le condizioni favorevoli per essere informati (o, come si dice con un termine tecnico: per ricevere dei feedback circa il proprio modo di essere e di agire), cala una cortina e la maggior parte delle cose resta nascosta.
Educarci alla veracità e alla carità nella comunicazione
È importante che impariamo a comunicare nella veracità e nella carità: la parola di Dio ci spinge in questa direzione. Basti qualche semplice citazione. San Paolo scrive: “Non mentitevi gli uni gli altri” ed esorta: “Dite ciascuno la verità al proprio prossimo”. Lo stesso apostolo esorta a dire “parole che possano servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli che ascoltano”.
Per procedere nella direzione indicata dalla parola di Dio è opportuno allora richiamare brevemente almeno due serie di considerazioni: una di carattere psicologico, l’altra di carattere teologico.
Anzitutto, dal punto di vista psicologico la possibilità di comunicare in modo autentico, sincero, è legata alla capacità della persona di essere in contatto con i propri vissuti interiori, con i pensieri e i sentimenti presenti nel proprio animo (motivazioni, paure, desideri, stati d’animo vari). Ciò suppone una (relativa) normale funzionalità psichica e la (relativa) assenza di meccanismi di difesa (negazione, razionalizzazione) che impediscono di cogliere le “vere” – anziché le “buone” – ragioni del proprio agire. È pure importante imparare modalità comunicative concrete capaci di esprimere i propri pensieri e le proprie valutazioni senza mancare di rispetto e offendere la carità. Solo se io sono consapevole delle motivazioni che mi muovono ad agire posso verificare se sono o meno ispirate a carità; solo se sono realmente in contatto con il mio mondo interiore dico – se voglio e lo ritengo opportuno/necessario – quello che veramente c’è nel mio animo, senza ricorrere a frasi fatte, vuoti slogan, espressioni retoriche; solo se ho la disponibilità e la libertà di osservare la realtà senza preconcetti e senza lasciarmi guidare da stati emozionali posso aiutare l’altro a rendersi conto di certi dati di realtà che ritengo utile o necessario che egli conosca.
È ovvio che parlare e condividere ciò che si pensa o si sente non è sempre necessario (“Vede, ascolta e tace chi vuol vivere in pace”, dice un vecchio proverbio); se però vogliamo parlare dobbiamo dire parole vere, non dire una cosa per un’altra, evitare espressioni generiche e vaghe con le quali si dice e non si dice, evitare forme impersonali e sentirci responsabili dei propri sentimenti, far parlare la realtà e non giudicare le persone. Qualche esempio. Anziché dire: “in questa riunione qualcuno potrebbe annoiarsi”; si è più veri dicendo: “in questa riunione io mi sto annoiando”; anziché dire a un superiore: “lei offende le persone con il suo modo di fare”, si è veri e rispettosi dicendo: “quando lei parla e usa quelle determinate parole o espressioni io mi sento offeso”; anziché dire a una religiosa: “a lei la comunità non interessa per niente”, la si può aiutare a rendersi conto del suo comportamento descrivendo nel modo più chiaro e concreto possibile quei dati di realtà o quei suoi modi di agire che di fatto provocano ripercussioni negative sulla comunità; anziché dire: “sarebbe necessario che il vescovo fosse più vicino ai suoi preti”, si è più veri e immediati se si dice: “io desidero un rapporto più stretto tra me e il vescovo”. Credo che questi esempi ci possano aiutare a renderci conto quanto il nostro modo di comunicare sia non raramente superficiale, chiacchiera vuota, sfogo emotivo; siamo lontani dal seguire l’invito biblico: “Ecco ciò che voi dovrete fare: parlare con sincerità ciascuno con il suo prossimo; veraci e sereni siano i giudizi che terrete alle porte delle vostre città”.
E ora una seconda considerazione di carattere teologico ed ascetico. Se facciamo attenzione, ci rendiamo conto che tutta la riflessione precedente attiene in larga parte, anche se non esclusivamente, a un aspetto corporale o alleviare forme di povertà. Ciò che noi rileviamo nella condotta di una persona e che riteniamo doveroso farglielo presente, non deve soltanto obbedire al criterio della verità (= sincerità), ma anche a quello della carità, se si vuole essere fedeli all’esortazione paolina richiamata all’inizio. Ciò significa che nel dire ciò che pensiamo e sentiamo nei confronti di una persona il cui comportamento ci è motivo di disagio, o che noi riteniamo espressione di cattivo esempio, si devono tenere presenti alcune condizioni.
Anzitutto, si deve ricordare che l’amore autentico per il bene del fratello è l’unica vera e valida motivazione che giustifica la correzione fraterna. Non si può quindi parlare di correzione fraterna quando ci si rivolge a una persona semplicemente perché siamo infastiditi dal suo comportamento o perché il nostro animo è inquieto e disturbato. Essa ha come unica finalità la crescita umana e spirituale del fratello e l’edificazione della comunità. In secondo luogo, la correzione fraterna va esercitata ispirandosi alla virtù cardinale della prudenza, perché la realizzazione del bene presuppone sempre la conoscenza della realtà: fare il bene, infatti, può solo colui che sa come stanno veramente le cose. Il prudente saprà quindi valutare i momenti, i luoghi e le modalità più opportune per dire la sua verità al fratello. In terzo luogo, la sincerità nel dire all’altro ciò che si pensa o si sente deve accompagnarsi a mitezza e dolcezza.
In conclusione, è superfluo sottolineare quanto veracità e carità siano qualità che ognuno di noi ha tanto bisogno di riscontrare in coloro con i quali comunichiamo: ci fanno tanto bene e ci aiutano, ci mettono a nostro agio. Non abbiamo dunque paura di cominciare anzitutto noi stessi per primi a procurare agli altri questo piacere, aiutati da un po’ di buon senso e di buon cuore, in semplicità. Possiamo essere aiutati in questo da Benedetto XVI, che ha il dono come pochi di unire semplicità e verità di linguaggio con profondità di pensiero, presentandosi sempre come persona umile e vera.
(Aldo Basso, su Testimoni 2 del 2013)