Marzo 2013
Tra ridimensionamento, chiusure e programmazione
Dal nostro stile a quello di Dio
Ammettiamolo: siamo stanchi. Ma forse è meglio precisare: siamo stanchi di sentirci stanchi e non avere il tempo e il coraggio di fermarci a chiederci il perché. Siamo stanchi di sentirci dire che la vita consacrata è in crisi, che non ha forze e risorse, che non è credibile… e, come spesso accade, quando molti pareri convergono, ci convinciamo che la stanchezza è l’orizzonte di vita che il futuro ci prospetta. E così, come capita alla maggior parte delle Congregazioni, stanchi e destinati alla stanchezza, facciamo le nostre programmazioni di ristrutturazione e ridimensionamento… ma, onestamente, siamo troppo stanchi per attuarle. Perché, lo sappiamo bene, chiudere un’opera, ridestinarla o ridefinirla implica una quantità incalcolabile di energia, di notti insonni e di responsabilità.
E se la stanchezza a cui ci siamo affezionati da tempo fosse solo il segno che ancora non abbiamo toccato il fondo? E se, tutto sommato, il torpore che appesantisce il coraggio di decidere fosse solo il segno che la spinta verso la risalita non è ancora apparsa come l’unica reale alternativa alla morte?
Il vero grande rischio di abbandonare il fondo è la paura e la tristezza di lasciare quello che abbiamo di più sicuro, ovvero ciò che nel corso degli anni, dei secoli, abbiamo costruito con le nostre mani e le nostre fatiche. Così è stato per il popolo d’Israele in esilio, che, lontano dalla terra che Dio aveva loro promesso, si è adattato, rinunciando alla precarietà della ricerca a favore di una stabilità dettata dall’autodeterminazione. Solo quando come consacrati saremo troppo stanchi di vivere lontano da casa, avremo la forza di risalire e di lasciare ciò che per secoli ci è appartenuto e ci ha identificato. Spesso a determinare il ridimensionamento delle nostre opere sono le circostanze, le crisi, le difficoltà, segni dei tempi che vengono in aiuto alle nostre indecisioni.
Faticose scelte di potatura
Ma come fare di questo tempo doloroso di potatura un tempo di fioritura evangelica? È possibile vivere la decisione di una chiusura nella fiducia di un’abbondanza di frutti? L’esilio che le Congregazioni stanno vivendo richiede il coraggio del ritorno, ma questo si verifica solo attraverso un altro tipo di coraggio: il coraggio di lasciare l’esistente per dirigersi verso ciò che già è dato e promesso anche se solo intravisto.
Come nei tempi dell’esilio del popolo di Dio, il desiderio e la decisione di ritornare al luogo della promessa, continua oggi ad essere, per noi consacrati, una risposta all’appello che ci raggiunge da parte di tutti coloro che ci aspettano e che confidano nel nostro ritorno. Da sempre, coloro che ci stanno attendendo, sono i piccoli e i poveri, coloro che hanno fame e sete, coloro che invocano giustizia, coloro che operano la pace… Sono quella parte del popolo che non ha avuto né la forza né le possibilità di andare altrove e sono rimasti nella fatica del vivere cercando di distinguere, in mezzo alle molteplici proposte, un segno che non deludesse la loro speranza di potersi affidare ad un Dio deciso a condividere con loro la povertà, la sottomissione, la gratuità della cura; un Dio capace di suscitare in altri il desiderio di fare altrettanto. Questo segno cercato, possiamo esserlo noi consacrati. Anche se a volte tornare, significa abbandonare dolorosamente ciò che è stato costruito durante i tempi dell’esilio e ricominciare partendo da coloro che ci attendono. Di fronte ad una società che propone il vincere facile, che invita al superfluo, che continuamente propone modelli di violenza, possiamo essere la memoria evangelica per il popolo di Dio, di quel Dio che insistentemente annuncia la Buona Notizia che essere poveri, rinunciare, perdere, abbandonare, lasciare, dare… sono possibili vie di felicità. La nostra vita può tornare ad essere la visibile prova che c’è un modo alternativo per essere felici.
Percorsi di crescita nella libertà dello Spirito
Questa prospettiva può, a volte, comportare faticose scelte di potatura; molti possono essere i motivi che spingono una Congregazione alla chiusura di un’opera o alla sua ridestinazione; la differenza è data dalla modalità con cui questa scelta avviene.
In primo luogo, prima ancora di accompagnare i processi di discernimento delle comunità, risulta opportuno intraprendere con esse percorsi di crescita verso una effettiva ed affettiva libertà nello Spirito. La creatività di Dio supera di gran lunga il mantenimento della realtà esistente provocandoci a restare in un atteggiamento di ricerca continua di quelle tracce che permettano di intravedere la via della promessa. La prospettiva di futuro di una Congregazione non è data solo dalla decisione di pochi, ma dal coinvolgimento di molti, a diversi livelli. Il viaggio sulla via del ritorno, sebbene richieda una decisione personale, non può ridursi a una questione privata e nemmeno rifugiarsi nell’attesa di una partenza nella disponibilità di tutti. Dall’esilio non sono tornati i migliori, ma ciechi, zoppi e donne partorienti, in altre parole coloro che hanno creduto alla possibilità di ricominciare, un piccolo resto libero di credere che qualcosa di nuovo e di possibile stava già accadendo.
Un discernimento circa un’opera necessita di un’attenta analisi e chiarificazione delle motivazioni che orientano la scelta. Spesso la spinta maggiore verso la decisione di una chiusura, è dettata da motivazioni di tipo economico, legate all’ insostenibilità, alle ristrutturazioni edilizie, ai gravami fiscali… ma forse questo è solo il segno che ci siamo già spinti oltre le nostre possibilità. Di fatto, il calo numerico dei consacrati ha creato una sproporzione tra i beni immobili e le risorse umane, con il possibile rischio di credere che il modo per affrontare la reale minaccia di questa sproporzione potesse essere la difesa delle opere, come garanzia di identità. Ritornare dall’esilio significa anche riscoprire che la vita consacrata ha valore in sé e non in funzione dell’opera. Nel corso degli anni il rischio, che talvolta abbiamo corso, è stato quello di identificarci e riconoscerci nelle attività che abbiamo fatto e non con la qualità della vita che abbiamo vissuto; certamente tutte le nostre opere e strutture sono espressione di un bene fatto e di un bene possibile ma forse, oggi, rischia di diventare ostinazione verso una determinata modalità di servizio rispetto ai cambiamenti che ci stanno coinvolgendo.
Un’attenzione alla sostenibilità umana
Altre motivazioni possono sostenere i nostri percorsi di discernimento, parliamo ancora di sostenibilità, non più economica ma umana. Le nostre opere e strutture ci aiutano ad umanizzare le relazioni comunitarie? Se così non fosse corriamo il pericolo di creare comunità funzionali all’opera; come se fosse la comunità a dover sostenere l’opera e non l’opera e la missione condivisa a sostenere la vita della comunità. L’investimento economico e l’investimento di persone di cui l’opera necessita, richiede una valutazione tanto prospettica quanto realistica circa la durata. La decisione di mantenere o chiudere un’opera ruota attorno alla reale possibilità che i membri della comunità possano essere sostituiti senza invalidare l’opera stessa. Coloro che svolgono un servizio, hanno il diritto di mantenere vivo il desiderio di poter passare il testimone, poter trasmettere ad altri la ricchezza umana, spirituale ed esperienziale che li ha sostenuti nella missione a loro affidata. Se questo venisse meno, il rischio potrebbe essere quello di mantenere opere sorrette da una singola persona insostituibile.
La vivibilità evangelica dello stile comunitario va di pari passo con la dimensione apostolica; quanto efficacemente le opere e le strutture rispondono alla domanda e alla ricerca di senso e di cura dell’uomo e della donna che ci attendono?
Ritornare dall’esilio significa restituire il pieno e profondo significato alla vita consacrata, testimoniando, con dignità evangelica, che perdere, a causa di Dio, significa trovare.
La cura in questi passaggi verso la libertà e verso l’analisi delle motivazioni non ci permette di trascurare ciò che accade quando la chiusura si mostra come effettiva via di ritorno, ovvero il modo in cui l’informazione e la comunicazione viene gestita all’esterno. Ricordiamo la vitale importanza del coinvolgimento della comunità nel processo di discernimento, ma non meno importante e fondamentale si rivela l’assunzione piena della decisione da parte della comunità stessa. Il percorso a monte, verso la libera disponibilità nei confronti della scelta, consente la responsabilizzazione e l’autorevolezza dei membri della comunità anche nei delicati passaggi successivi. Un corretto esercizio del discernimento può rafforzare i vincoli fraterni e il modo di gestire una chiusura diventa testimonianza di libertà di spirito e di coraggio nella ricerca. Molto dipende dalla coesione della comunità nella comunicazione e dalla chiarezza nella trasmissione di informazioni. Assumere la decisione di una chiusura comporta inevitabilmente, indurire il volto e portare le conseguenze anche, eventualmente, di fronte a chi non comprende, o non può comprendere, le ragioni di tale scelta. Per questo l’accompagnamento e il coinvolgimento della comunità risulta essere un punto di forza irrinunciabile in un processo che si orienta verso la chiusura. La forza per lasciare, per cambiare, per tornare, sgorga da una prospettiva di vita, dall’alternativa vitale e vivibile che si prospetta come promessa di un futuro realizzabile, verso una terra dove è possibile mettere a disposizione l’esperienza e la sapienza acquisite in esilio.
Come criterio lo stile di Dio
Tornare essendo consapevoli di essere stati scelti per mettere in pratica un modo diverso di vivere, diverso perché ha assunto come criterio fondamentale lo stile di Dio. Solo questa consapevolezza ci può permettere di essere sufficientemente liberi, per esserci dove altri non scelgono di stare, per scegliere ciò che altri rifiutano, per rifiutare i compromessi dettati dall’ingiustizia. Tornare alla nostra promessa significa ripartire dalla gratuità, come segno di alleanza, come segno visibile e concreto del modo con cui Dio stesso incondizionatamente ama e si prende cura dell’uomo.
Lasciare un’opera, certamente, significa lasciare un modo attestato nel tempo di essere visibili e riconoscibili ma significa anche, con coraggio, dichiarare la dignità del lievito nascosto che fa fermentare la pasta. Tornare a vivere nella terra promessa significa imparare a restare in mezzo, tra altri uomini e donne, rispondendo ad una particolare chiamata a favore di altri, coinvolti in una passione comune. Scelti tra altri per essere al servizio di altri, per essere visibili nella nostra umanità. In mezzo, quindi, non per perdersi ma per essere visti e per rendere visibile la compassione di Dio per l’uomo, per annunciare la verità della cura di Dio per l’uomo e per la donna e scoprire che il prossimo è, prima di tutto, compagno di viaggio. Ciò che può darci la forza di lasciare l’esistente è l’incontenibile desiderio di rendere visibile e credibile la compassione, poiché nulla di ciò che è umano può esserci estraneo. Tornare alla nostra terra significa, ancora, rinunciare all’autosufficienza e chiedere il permesso che altri ci lascino entrare nelle loro vite, chiedere di essere ospitati senza la pretesa di togliere il dolore o di dare gioia, ma chiedere di essere accolti nell’intimità della vita umana, unico luogo dove la gioia e il dolore possono essere, fraternamente e senza vergogna, condivisi. Forse, con questa consapevolezza, il dolore della perdita che inevitabilmente accompagna la decisione della chiusura di un’opera, lentamente, può lasciare spazio alla piacevole e delicata sensazione di un ritorno alla leggerezza degli inizi…
(Sr. Francesca Balocco, su Testimoni 3 del 2013)