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188q05aNovembre 2012

Monachesimo e amicizia. L'esperienza di Frère John a Taizè

 

La Chiesa come amicizia

L’Anno della fede (ottobre 2012-novembre 2013) intende favorire la gioiosa riscoperta e la rinnovata testimonianza della fede. In questo modo ci spinge come Chiesa a concentrarci ancora una volta sul significato della formula “nuova evangelizzazione” e sulla necessaria conversione pastorale delle nostre comunità. A partire dalla sua esperienza nella Comunità monastica internazionale di Taizé in Francia, frère John col libro intitolato Un’amicizia e i molti amici ci offre un testo che va in tale direzione.

Alla ricerca dello specifico della fede
Si parte da una domanda fondamentale: che cosa definisce la fede che professiamo? La prima risposta potrebbe essere: il cristianesimo è una “religione” fra le tante. Si può dire, ma si tratta di un concetto che rischia di fuorviarci: Gesù, Buddha e Maometto non avevano la stessa idea della propria identità né le stesse pretese. Perciò frère John sente la necessità di richiamare la celebre espressione del pastore luterano Bonhoeffer: «Gesù non invita a far parte di una nuova religione, ma chiama alla vita».
Una seconda risposta potrebbe definire la fede cristiana come “spiritualità”: un termine che evoca l’idea di un percorso personale e interiore. Si tratta di un concetto interessante, che però ai nostri giorni assume connotati eclettici e individualistici. Una spiritualità creata secondo i gusti personali non corrisponde alla specificità della fede cristiana, che è essenzialmente una relazione con la persona di Gesù Cristo più che l’accoglienza di dottrine disparate (cf. le moderne gnosi). Chi ascolta la chiamata del Cristo e vi risponde si inserisce infatti in una rete di relazioni con coloro che percorrono lo stesso cammino. L’annuncio dell’amore di Cristo si esplicita con l’esperienza di comunione tra le persone.

L’offerta di una comunione universale
Il cristianesimo, a questo punto, si potrebbe descrivere allora come uno “stile di vita in comune”? Certo gli Atti degli Apostoli illustrano lo stare insieme dei discepoli di Gesù: non troviamo però la descrizione di una semplice convivialità umana, ma piuttosto una partecipazione alla vita di Dio che è amore. Si narra di una vita comune spesa per gli altri: vita inclusiva e tendente a espandersi per raggiungere ogni essere umano.
Alla luce di tutte queste considerazioni, l’autore tenta una suggestiva risposta alla domanda iniziale: «Nella sua essenza la fede in Gesù Cristo può definirsi come l’offerta in atto di una comunione universale in Dio» (p. 25). Entrando pienamente nella condizione umana attraverso Gesù Cristo, la sua immagine incarnata, Dio invita tutti gli esseri umani a condividere la sua stessa vita. Chi si apre a questo invito è trasformato dallo Spirito e si scopre membro di una sola famiglia umana. Dunque «un corpo inchiodato sulla croce duemila anni fa dà vita, oltre la morte, a un corpo che cresce lungo i secoli, avvicinando in molti modi una moltitudine di uomini e di donne, con all’orizzonte una visione dell’umanità nel suo insieme, divenuta una sola famiglia che vive in pace: ecco l’immagine che forse esprime meglio di tutte la specificità della fede cristiana». Il richiamo implicito è al “Cristo totale” di Agostino, che possiamo anche chiamare il “Cristo di comunione”.

La Chiesa come amicizia
Proprio questa prospettiva del “Cristo di comunione” permette a frére John di approfondire il tema dell’amore evangelico e di esplorare (anche storicamente) una vera e propria teologia dell’amicizia, mostrando come essa possa diventare un elemento fecondo per descrivere il messaggio chiave di Gesù e la vita dei primi discepoli: «Non vi chiamo più servi... ma vi ho chiamati amici... Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri» (cf. Gv 15,15-17).
Perciò l’apostolo Paolo proclama che l’attività più caratteristica di Dio in Cristo sia di far passare gli essere umani da una situazione ‘fuori dal cerchio’ a una dentro il cerchio: questo passaggio dall’esclusione all’inclusione è la “riconciliazione” (Rm 5,8-11 e 2Cor 5,17-21). Perciò frère Roger, il fondatore di Taizé, non ha esitato a indicare nell’amicizia il volto umano della Chiesa: «La fede non nasce dall’amicizia umana, ma vi trova un appoggio. Attraverso un succedersi di amicizie, è così fin dalla prima comunità cristiana, a tal punto che ciò che conta non è la mia fede, ma quella della Chiesa».
La Chiesa dunque è molto più che il contesto nel quale si può scoprire la buona notizia di Gesù: essa è già un’espressione privilegiata di questa buona notizia. La Chiesa è infatti «il sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (LG 1). I cristiani, evangelizzando l’amore tra il Padre e il Figlio, sono chiamati a farsi amici di tutti e a essere amici di coloro che accettano il loro invito. E in tale scenario di Chiesa come rete di amicizia, i sacramenti e i ministeri sono strumenti per favorirne la crescita. L’autorità dunque va esercitata in modo che non attiri l’attenzione su se stessa, ma si presenti come mezzo insostituibile per la edificazione del corpo di Cristo (koinonia). Allora ogni forma di clericalismo sarà soffocata sul nascere!
Ai consacrati come ai laici nel tempo della “nuova evangelizzazione” spetta in conclusione un doppio compito: a) approfondire la fede come proposta di comunione con Dio e fra le persone, resa concreta in rapporti di amicizia fra credenti e aperta a tutti; b) fare di tutto affinché l’organizzazione concreta della Chiesa sia un riflesso di questa identità fondamentale e favorisca l’amicizia, immersi nella società in cui regna il bisogno imperante del fare, organizzare e ottenere. In un mondo globalizzato e che scopre sempre più l’unità, non senza scontri e vittime a tutti i livelli, il miglior mezzo perché questa unità non si realizzi nel segno dell’egemonia politica e militare, della dipendenza economica o dell’uniformità ideologica, è quello di una comunione di persone libere, di una moltitudine di amici.

(Mario Chiaro, su Testimoni 17 del 2012)