camaldoliNovembre 2012

Settimana di spiritualità monastica a Camaldoli

Il buon uso del tempo

Occorre conoscere e accettare le stagioni della vita, accettando di recidere dalla propria esistenza quanto era proprio di un’età precedente: soltanto così si eviterà che il presente sia vissuto in modo sterile e nostalgico. Il riferimento alla Regola di san Benedetto.

Scopo principale della vita del monaco è l’integrità, l’unificazione interiore, e l’orientamento di tutta quanta la propria vita a Dio. Per camminare verso tale traguardo, fondamentale è il modo di vivere il tempo, poiché ogni serio percorso spirituale non è questione di attimi ispirati, ma di una fedeltà che si dispiega, appunto, nel tempo. Non dunque un tema ozioso, ma un nodo centrale per la vita dei religiosi, sia a livello di riflessione che a livello di prassi quotidiana, è stato l’argomento della seconda Settimana di spiritualità monastica organizzata dal Monastero di Camaldoli in collaborazione con l’Istituto monastico del pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma: Il (buon uso del) tempo: ordine e flessibilità – In ascolto della Regula Benedicti e della tradizione monastica. Ad essa hanno partecipato monaci e monache di varie comunità, tra cui un buon numero di giovani in formazione. A guidare le riflessioni della settimana sono stati sr. Manuela Scheiba OSB, del pontificio Ateneo Sant’Anselmo, e don Adalberto Piovano OSB, dell’Istituto di liturgia pastorale “Santa Giustina” di Padova. Gli interventi dei due relatori si sono sapientemente intrecciati, alternandosi a momenti seminariali di gruppo incentrati sulla lettura di alcuni testi significativi e sullo scambio di idee e di esperienze.

Regola di S. Benedetto e tradizione monastica
Al centro delle tematiche affrontate, dicevamo, è stato il buon uso del tempo, soprattutto per come viene delineato all’interno della Regola di San Benedetto e nella tradizione monastica, anteriore e posteriore. Benedetto è apparso come un sapiente organizzatore, attento e realistico, capace di modellare la vita comune in maniera accorta e sobria, equilibrata e armonica. Uno dei passi fondamentali, più volte richiamati nel corso del convegno, è stato il capitolo 48 della Regola (d’ora in poi: RB): in esso si esprime l’esigenza di stabilire dei confini al tempo e ai tempi, tempora ordinari, perché ogni cosa possa avvenire in modo opportuno, certis temporibus, e in giusto equilibrio rispetto alle altre istanze che costellano la giornata del monaco (cf. RB 48.1-2). L’arte dell’abate, alla guida della comunità, si esprime innanzi tutto nella padronanza del tempo e dei tempi, nella capacità di stabilire regole e insieme di adattarle alle circostanze: miscens temporibus tempora (RB 2.24).
La sapienza nel gestire e regolare il tempo, ha sottolineato sr. Manuela Scheiba, è in stretta relazione con il significato che si attribuisce alla vita della comunità monastica, alle sue gerarchie di valore, alle sue priorità. Come viene utilizzato il tempo? Come vengono ripartite le varie attività della giornata? Come si stabiliscono le priorità tra le varie sollecitazioni? Sono domande molto concrete, che al tempo stesso possono svelare la tensione profonda che abita una comunità religiosa e i suoi membri. In particolare, il tempo monastico si configura come ritmo e come durata: come ritmo, perché è un tempo scandito dall’ufficio divino, un tempo in cui non c’è un’attività che ha la meglio sulle altre in modo assoluto (ad esempio, il lavoro), bensì sussiste un affascinante e delicato equilibrio tra la preghiera, il lavoro, il riposo, il silenzio e la parola, la solitudine e la comunione; come durata, perché la vita monastica si sviluppa come fedeltà alla realtà e alla quotidianità, come stabilità nella fatica e nella prova, contrariamente alla cultura attuale che spesso si configura come esaltazione dell’emotività e dell’istante, come dittatura del “tutto e subito”, smarrendo il senso della perseveranza e dell’attesa.
La vita del monaco non è peraltro esente dalle difficoltà che incontrano tutti gli uomini e le donne del nostro tempo. Al contrario: il lavoro – tema al quale sono state dedicate due relazioni di sr. Scheiba – rappresenta un aspetto importante, che dice la condivisione da parte dei monaci della fatica di vivere che è propria dei laici, che ogni giorno si devono guadagnare il pane. Proprio san Benedetto ha contribuito in maniera determinante a una rivalutazione del lavoro manuale, rompendo l’equivalenza normale nel mondo antico tra lavoro manuale e schiavitù, e rendendolo attività degna degli uomini liberi. Se ancora alcuni Padri del deserto potevano nutrire alcune diffidenze circa l’opportunità che i monaci lavorino, Benedetto – sulla scia di Basilio, Pacomio e Agostino – fuga ogni dubbio. L’assenza di un lavoro diventa non auspicabile, per via degli effetti negativi che l’ozio avrebbe sull’interiorità: otiositas inimica est animae (RB 48.1). Perciò il lavoro, se svolto bene, non può che essere “amico dell’anima”, come recita il titolo di un volume di Norvene Vest su questo tema.

Il lavoro in un mondo cambiato
Il lessico stesso della Regola svela quanto la dimensione del lavoro fosse importante agli occhi di Benedetto. Non a caso, infatti, il monastero stesso viene denominato officina (RB 4.78), e il monaco viene designato come operarius (RB Prol. 14). Leggiamo poi nella Regola: “allora sono veramente monaci, quando vivono del lavoro delle loro mani” (RB 48.8). Dunque il lavoro viene a costituire uno dei pilastri portanti della vita monastica, insieme alla lectio e all’opus Dei, conformemente allo stesso insegnamento apostolico, esplicito nelle parole di San Paolo (cf. 2Tess 3). Un lavoro che, certamente, va svolto con discrezione, senza indebite assolutizzazioni, senza che il primato dello spirituale venga messo in questione. Il fine, ricorda RB 57, è pur sempre che in tutto sia glorificato Dio!
In tal senso, non poche sfide si presentano al monachesimo odierno: costretto a inserirsi in una mentalità e in abitudini lavorative che sono ormai molto lontane dal contesto agricolo in cui si collocava la Regola di san Benedetto; sempre alla ricerca di un equilibrio sano tra lavoro e preghiera, tra impegno e riposo, tra sforzo produttivo e armonia spirituale della vita personale e comunitaria; sempre sollecitato a non creare false gerarchie tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Ancora: i monasteri oggi avvertono la questione di come conciliare i ritmi dei monaci con il lavoro di operai e impiegati laici; di come preservare la propria identità pur senza sottrarsi al compito di adattarsi alla sensibilità contemporanea; di come evitare il “soffocamento” della vita monastica in compiti pastorali e apostolici che non le sarebbero propri, ma che sempre più spesso vengono richiesti; di come mantenere la dimensione del “noi” comunitario nel lavoro, fuggendo la tentazione di trasformare le varie attività in imprese individuali.

L’ordine contro il disordine
Un riferimento importante, in questo senso, può essere il concetto di ordo, che è stato al centro dell’ultima relazione di sr. Scheiba. L’idea di “ordine” è fondamentale nell’opera e nel pensiero di sant’Agostino, dal De ordine fino al De civitate Dei: contro il disordine storico ed esistenziale, collettivo e personale, Agostino ribadisce l’importanza di creare un ordo amoris, un ordine nei desideri e negli amori, e di conseguenza negli impegni e nelle attività. Ma l’ordo non è una lex: non implica un’eguaglianza degli elementi in gioco, né sempre può tradursi in una regola fissa, anzi esso richiede sempre di nuovo, in base al mutare delle circostanze, di ristabilire faticosamente un’armonia tra istanze che sono e restano diseguali, tramite una gerarchizzazione delle parti in riferimento a un tutto.
Proprio questo concetto dinamico di “ordine” è ricorrente nella Regola di san Benedetto. La dispositio (RB 48.2) che Benedetto propone è un’attitudine sapienziale, più che un’indicazione fissa, non tanto un addestramento rigido quanto un superamento sapiente del caos. Sia per la preghiera sia per il lavoro, infatti, le disposizioni della Regola non sono presentate come assolute, come vigenti sempre e comunque: al contrario, si ammette la possibilità di adattare tali prescrizioni al variare delle stagioni (RB 41), alle condizioni locali (RB 48.7), alle caratteristiche personali (RB 48.23), aprendo a soluzioni alternative pur restando entro certi parametri di fondo (RB 18.22). Tale dunque è l’equilibrio dinamico, mai fissato una volta per tutte, che va ricercato: tra un ordo che è irrinunciabile per non abbandonare la vita monastica alle idiosincrasie personali e al disordine delle contingenze, e la relativizzazione dell’ordo stesso, in riferimento da un lato alle situazioni concrete, dall’altro al fine fondamentale, che per Benedetto resta la salvezza delle anime (RB 41.5).

Il tempo e la vita spirituale
Gli interventi di dom Adalberto Piovano si sono concentrati invece sul tempo in relazione alla vita spirituale e alla vita di preghiera, nonché rispetto alla minaccia fondamentale al buon uso del tempo, l’accidia, e al suo rimedio. La vita spirituale non va sovrapposta automaticamente alla vita monastica, quasi che la struttura del monastero garantisca l’autenticità di un cammino spirituale. Essa è significativamente definita da Benedetto ars spiritalis (RB 4.75): e come tutte le arti, richiede tempo e disciplina, passione e fatica, creatività e pazienza. L’arte spirituale nella Regola presenta degli strumenti quanto mai concreti, che sono costituiti innanzi tutto dalla stabilità, ovvero dalla fedeltà nel legame quotidianamente rinnovato con il monastero (RB 4.78), inteso sia come luogo fisico (claustra monasterii), sia come insieme delle persone (stabilitas in congregatione). L’arte spirituale richiede pertanto il perseverare con pazienza nell’officina che è il monastero, sviluppando quella che si potrebbe definire un’ascesi del quotidiano, che esige un apprendistato continuo e graduale, senza interruzioni e senza scorciatoie.
Solo la fedeltà nel tempo in questa perseveranza può portare a un progresso autentico nella vita spirituale, fino a raggiungere la piena maturità di Cristo (Ef 4,13). Progredire nel tempo significa anche attraversare le varie età della vita: in senso sia biologico sia spirituale. Occorre dunque conoscere e accettare le stagioni della vita, accogliendo la necessità di recidere dalla propria esistenza quanto era proprio di un’età precedente: soltanto così si eviterà che il presente sia vissuto in modo sterile e nostalgico. Tale sapienza dei tempi include anche la memoria mortis, troppo spesso rimossa nella nostra società: l’accettazione del limite, della sofferenza, della finitezza, e anche della prospettiva della morte, visti come occasione di grazia e non come maledizione da sfuggire. Fondamentale, in tutto ciò, sarà infine la capacità di custodire un senso genuino dell’attesa: il monaco è colui che attende, l’assenza e l’incompiutezza dell’attesa definiscono la vita monastica stessa. La pienezza è sempre oltre, ma questo non è percepito con frustrazione, se si riesce a vivere l’attesa nell’amore!

Alla preghiera nulla va anteposto
Il tempo monastico è scandito essenzialmente dalla preghiera, alla quale nulla va anteposto (RB 43.3). Per questo aspetto, vale quanto si è detto circa l’arte spirituale e l’ordine: il segreto della vita di preghiera risiederà nella capacità di perseverare, di essere fedeli, di seguire un ritmo – purché non sia uno schema rigido e soffocante, ma piuttosto una scansione armonica del proprio tempo. Orationi frequenter incumbere (RB 4.56): pregare frequentemente, consiglia Benedetto, raccogliendo nella preghiera l’integralità della propria vita, perché la vita stessa si trasformi in preghiera, in un’attesa orante, capace di sviluppare la pazienza e di purificare il desiderio. Così si intravvede una possibile ricomposizione dell’esigenza da un lato di fissare tempi determinati per la preghiera, e dall’altro l’invito paolino a pregare incessantemente – dilemma che si rispecchia nella polisemia stessa dell’espressione opus Dei, che per Benedetto indica l’ufficio liturgico comune, ma per alcuni Padri designava l’intera vita monastica.
Per finire, consideriamo ancora quella terribile insidia al buon uso – monastico, ma non solo! – del tempo, che è costituita dall’accidia, oggetto durante il convegno di un’intensa lezione di dom Piovano. Come è noto, tematizzata tra gli altri da Evagrio e da Cassiano, l’accidia consiste in una sorta di sfibramento, di atonia dell’anima, di soffocamento interiore, di paralisi spirituale. Può avere paradossalmente sintomi opposti: l’indolenza e l’attivismo, la svogliatezza e la negligenza così come l’agire forsennato. Ad entrambi, però, corrisponde un disgusto interiore che avvelena le relazioni con gli altri e la stessa vita spirituale. Ebbene: il rimedio che la tradizione monastica suggerisce riguarda, ancora una volta, il modo di abitare il tempo. Esso consiste nella stabilità, nel “rimanere”: non fuggire davanti alle difficoltà, non cedere alla tentazione del mutamento continuo degli spazi e dei tempi, ma perseverare con pazienza, nella ypomoné, nell’attesa di gustare nuovamente la freschezza dello Spirito, che il monaco non si conquista da sé, ma che gli viene donata dall’alto.

(Emanuele Bordello, su Testimoni 17 del 2012)