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220px-Giotto_-_Legend_of_St_Francis_-_-05-_-_Renunciation_of_Wordly_GoodsOttobre 2012

Esperienza-accettazione dei propri limiti

Povertà: prova di maturità

Il limite ci fa problema. La debolezza ci fa sentire perduti.La cultura e la società attuale non li ammettono (e non sono graditi neppure nelle comunità).Eppure c’è una verità antropologica da scoprire in questa condizione che ci riguarda tutti.

Lo specchio non mente. Riflette inesorabile pregi e difetti di chi gli si pone davanti. Va da sé che a far problema sono i difetti. Quanto questa vista ci costi, quanto sia difficile accettare i nostri aspetti meno belli, solo noi lo sappiamo.
Fin qui niente di nuovo, almeno finché si rimane a una considerazione estetica di superficie. Più complessa la situazione quando si ha a che fare con gli aspetti negativi della propria personalità – i difetti –, quegli aspetti del nostro carattere che ci pesano e detestiamo perché pongono continui problemi nella nostra vita quotidiana. Sono vere e proprie “spine nel fianco” che fanno male e non ci lasciano mai tranquilli. Non hanno bisogno di uno specchio per essere viste: le “sentiamo”, quando meno ce l’aspettiamo.
Li sentiamo, per esempio, quando abbiamo a che fare con persone in cui sono particolarmente visibili gli aspetti di limite, le povertà personali. Le reazioni interiori di quei momenti sono il risultato di un disagio faticosamente controllabile. Un disagio che non trova negli altri, ma in noi la sua ragion d’essere.

Divieto d’accesso
L’auto si ferma al semaforo. Dal marciapiede si stacca un giovane. Appoggiandosi pesantemente a una stampella, trascina la gamba e si avvicina alla portiera con la mano tesa e il viso implorante. «Vedi! Sono queste le cose che mi fanno arrabbiare – dice il conducente all’amico –: si vede benissimo che non è sciancato… anch’io sarei capace di mettere la gamba così, di fingere in quel modo!». Un gesto sbrigativo della mano allontana l’importuno. Non si abbassa il vetro, non si comunica neppure con lo sguardo: divieto d’accesso!
È così. Lo spettacolo della povertà personale – che noi spesso, a ragione o a torto, giudichiamo sbrigativamente come una “esibizione” vittimistica e utilitaristica – ci mette in difficoltà, disturba, provoca un senso immediato di rifiuto. E perciò facciamo carte false per evitare i problemi, le crisi, il dolore, realtà che vorremmo bandite dal nostro quotidiano. Perché non ci piace la debolezza sentita sulla nostra pelle; così come non ci piace sperimentare quella divisione interiore, quella nostra ambivalenza di fondo che diviene palpabile nei momenti di dubbio, di insicurezza, di tentazione. Il limite, il disagio, la povertà sono realtà così lontane dal mondo dei nostri desideri che, non appena si presentano, innescano in noi una istintiva risposta di negazione. E così, non appena ci troviamo di fronte al limite o alla povertà altrui, subito innalziamo un muro alto quanto la nostra paura di… essere come lui.
È un rifiuto che si può esprimere come giudizio che sa di condanna («beh, gli sta bene… questa cosa se l’è cercata!»), o che si muove nella logica della colpa («se gli è andata male, vuol dire che anche lui ha fatto qualcosa che non doveva…»), oppure, in chiave soggettiva, carico di vittimismo («lo sapevo che sarebbe finita così… capitano tutte a me!»). Divieto d’accesso: non c’è spazio per l’imprevisto, per il disagio, per l’insuccesso, che finiscono per essere tutte esperienze che condanniamo, in modo esplicito o implicito, sia in noi che negli altri. E prendere le distanze da chi è palesemente limitato, o povero, è un tentativo di non ritrovarsi “contagiati”, nelle stesse condizioni.
In teoria, lo sappiamo: come creature siamo tutti limitati. Ma nella pratica, quando ci troviamo a vivere in diretta l’esperienza del limite, della povertà, dello scacco ci sembra immediatamente di essere perduti. O meglio, ci sembra di avere perduto il nostro valore personale, di non essere più degni, validi, “presentabili” davanti agli altri… e che tutto, d’ora in poi, sarà diverso (ovviamente in peggio!). Sì, perché l’uomo che ha bisogno degli altri, l’uomo che non può bastare a se stesso – in poche parole il “povero” – agli occhi dell’uomo d’oggi è una provocazione, una vera e propria sfida allo stile di vita e alla visione dell’uomo tipica del nostro tempo.
Eppure, c’è una profonda verità antropologica quando si dice che il povero ha bisogno degli altri e non può bastare a se stesso, poiché è l’uomo in quanto tale che non può, e non potrà mai, bastare a se stesso. È un dato di fatto, non una colpa di cui vergognarsi, da eliminare al più presto e, possibilmente, in modo definitivo.
Oggi si parla solo di crisi economica, si fanno analisi di ogni tipo, sempre a livello economico finanziario. Nonostante sia palese che dietro a questa crisi c’è l’uomo, si fatica a mettere in discussione quella filosofia dell’“uomo che si è fatto da solo” (self made man), così connivente con il criterio consumistico imperante nel mondo e tanto nemica di una realistica percezione di sé e del senso della vita. È essa che alimenta la pretesa di aver tutto sotto controllo e che, a sua volta, giustifica tutta una serie di strategie rassicuranti per impedire di trovarci “vittime” del limite, che noi non vogliamo.

Onnipotenza e responsabilità
Al fondo di questo atteggiamento di rifiuto del limite c’è un’inconscia logica ambivalente che ci porta ad attribuire a noi stessi, o agli altri, le responsabilità di ciò che di spiacevole ci troviamo a vivere. Si oscilla, allora, tra sensi di colpa e indegnità personale a motivo dei nostri difetti, limiti o errori personali e vittimistici atteggiamenti di accusa nei confronti del mondo che non ci capisce, che interferisce con il nostro progetto di realizzazione personale, che non valorizza la nostra originalità. Invece, quando si tratta di ciò che di buono abbiamo fatto, o che ci caratterizza individualmente, tendiamo a ritenere che sia tutto frutto del nostro merito personale.
Ci è difficile raggiungere e mantenere la consapevolezza di essere creature che non si sono fatte da sole, che da sempre vivono immerse in una rete di relazioni che ci rendono possibile la vita, la crescita, la speranza. Poiché sentiamo il desiderio onnipotente di essere padroni assoluti della nostra vita e di non avere limiti, facciamo di tutto per proteggere e difendere questo istinto di sentirci al sicuro. Anche a costo di una continua falsificazione della realtà. Paradossalmente, l’uomo dichiara in tanti modi, impliciti o espliciti, di non aver bisogno di nessuno, per poi vivere situazioni di evidente dipendenza dal giudizio, dall’affetto degli altri, una dipendenza che si rivela grossolana quando in gioco c’è il bisogno di sentirsi approvati e riconosciuti.
Tutta questa enfasi sullo sguardo, sul giudizio degli altri, è e rimane sempre un effetto inevitabile di un’inconsapevole miopia personale: quella che vede soprattutto ciò che non va, il proprio negativo, e lo assolutizza. Non ci riesce di considerare, in una realistica visione d’insieme, che accanto ai nostri limiti e fragilità ci sono anche tanti aspetti positivi, di valore; che noi, insomma, non possiamo ridurre la percezione di noi stessi solo a quegli aspetti che non ci piacciono, che non sopportiamo o deploriamo…
L’umanità, che condividiamo con tutti gli altri esseri umani, comporta aspetti positivi e negativi, qualità e difetti, ricchezze e povertà, presenti in ogni persona, per quanto possano essere stati diversi gli esiti esistenziali che hanno portato alla condizione attuale di ciascuno. Assumere la responsabilità di questa nostra condizione di base è faticoso, ma riempie di significato il tempo della nostra breve o lunga vita.
Un atteggiamento onnipotente condanna alla mistificazione, all’insoddisfazione e taglia fuori dalla logica evolutiva della vita, obbligando a una miriade di giustificazioni insufficienti alla comprensione della realtà che viviamo. Un atteggiamento responsabile la rende ogni giorno interessante, poiché assunta con realismo e umiltà, che la fa assaporare come un dono costantemente scoperto, non “nonostante”, ma “grazie” alla fatica e al lavoro su se stessi.
Anche il voto di povertà della persona consacrata, lo sappiamo, trova senso in una prospettiva di libertà e responsabilità. Ma che cosa questo significhi, di fatto, alla luce del cammino formativo vissuto, è tutto da verificare. Quali sono le reazioni alla quotidiana esperienza del limite e della povertà personale? La persona è riuscita a integrare in chiave positiva anche l’aspetto del limite, a limitare il più possibile il bisogno di dissimulare le proprie fragilità, giungendo a una serena e umile libertà di donarsi?

«Ti basta la mia grazia!»
L’esperienza di san Paolo descritta in 2Cor 12,9ss è nota a tutti. Egli la sintetizza in queste parole: «Ti basta la mia grazia! La forza, infatti, si manifesta pienamente nella debolezza». Di fronte a queste parole, stimiamo l’apostolo e ci sentiamo affascinati da questa esperienza, che vorremmo fosse anche nostra.
Non è difficile riconoscere nell’esperienza di Paolo la pedagogia di Dio che si realizza pienamente nella dinamica pasquale di Cristo, che comporta esperienza della tentazione, solitudine, senso di abbandono, di impotenza, di fallimento e incomprensione. Tutte esperienze inevitabili anche per noi, se vogliamo arrivare alla salvezza e alla verità, seguendo l’esperienza del Figlio di Dio.
Ma non so quanto siamo davvero convinti che «la forza si manifesta pienamente nella debolezza», poiché è una logica che contrasta chiaramente con il nostro modo di intendere la vita. I nostri sforzi migliori sono profusi più per evitare le prove della vita, l’esperienza della debolezza, anziché cercare di comprendere che cosa esse indicano, quale sia la loro promessa di vita nuova, dove possano condurre.
Infatti, la nostra identità non consiste soltanto nel conservare ciò che siamo stati finora, ma nel diventare ciò che ancora non siamo. Per questo le prove della vita – in primo luogo l’esperienza del limite e della nostra povertà – sono l’altra faccia della grandezza della vita, luogo in cui si esprime la potenza di Dio. Proprio perché la vita è un dono grande ci richiede di passare attraverso situazioni difficili per poterlo accogliere in modo sempre più nuovo e pieno. L’amore di Dio è sempre presente, tanto grande ed efficace che in ogni circostanza della vita ci offre vita: possiamo accoglierlo e donarlo. Così come nessuna situazione ci può impedire di amare, cioè di accogliere l’amore di Dio, integrarlo nella nostra vita e donarlo a nostra volta. È la condivisione dell’amore di Dio che impariamo vivendo ogni circostanza della vita – positiva o negativa – come occasione per crescere, per costruire la nostra identità, obbedienti alla vocazione ricevuta. Ciò richiede la consapevolezza che, per quanto ognuno sia importante, un valore inestimabile, non può bastare a se stesso, né può realizzarsi in modo pieno e autentico da solo. Abbiamo bisogno di Dio e degli altri, e di vivere questa dipendenza radicale senza sentirci sminuiti ma, al contrario, arricchiti, riconoscendo la responsabilità di essere a nostra volta, poveri come siamo, mediazione di Dio per gli altri.
Un’umile accettazione del nostro limite ci chiede di non sminuire le esigenze dei valori adattandoli a noi, così come esige che non ci svalutiamo a motivo delle nostre fatiche e fragilità nel viverli; ci chiede di non cedere allo scetticismo di fronte alla durezza del cammino, tirando a campare; ci chiede di non accontentarci di ripetere in modo monotono valori e ideali illudendoci che il proclamarli equivalga a viverli; ci chiede di non farci paladini di valori e ideali per controllare come gli altri li vivono, ma di sporcarci le mani vivendoli noi per primi nel quotidiano, perché ci crediamo e non perché conviene, ecc…
Accettare il proprio limite è riconoscere che Dio mi parla con la sua Parola e con il suo Spirito, credendo alla novità e urgenza del suo appello e del mio ascolto; è accettare la mia debolezza senza smettere di cercare il Signore e godere di ogni piccolo passo verso di lui. Dio, come la nostra vita, è un mistero che sta sempre davanti a noi e ci provoca: davanti ad esso siamo tutti, e sempre, discepoli.

(Enzo Brena, su Testimoni 15 del 2012)