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italy.pier_tomaso_mass_2005_8inOttobre 2012

I 450 anni della riforma del Carmelo

Un carisma tuttora splendente

Il Signore che si è tanto adoperato perché l’opera iniziata da santa Teresa d’Ávila si compisse, continuerà a farlo perché essa non vada in rovina, ma al contrario progredisca sempre più. Essa oggi è posta nelle nostre mani. Lettera del sup.gen. p. Cannistrà.

La famiglia religiosa dei carmelitani scalzi ha ricordato, il 24 agosto scorso, i 450 anni della fondazione del monastero di San José di Ávila, data che segna l’inizio della riforma dell’Ordine promossa da Santa Teresa. Alla gioia per l’avvenimento, che è di tutta la Chiesa, si è associato anche il Papa Benedetto XVI con un messaggio al vescovo di Ávila, mons. Jesús García Burillo, ricco di spunti di spiritualità e di dottrina teresiana.
Da parte sua, il preposito generale dell’Ordine, p. Saverio Cannistrà, ha scritto anch’egli un messaggio a tutto l’Ordine, di forte ispirazione e intensità spirituale, proponendo una riflessione di grande interesse per tutti coloro che vedono in Santa Teresa, non solo una grande maestra, ma anche un meraviglioso modello di vita consacrata, soprattutto oggi in cui questa è minacciata dalla stanchezza e dall’apatia e ha bisogno di trovare rinnovato slancio e fervore.

Il messaggio di p. Cannistrà
«Al pensiero che la nostra famiglia religiosa compie 450 anni di vita – scrive p. Cannistrà – il primo sentimento che riempie i nostri cuori è la gratitudine al Signore per la fedeltà del suo amore, unita alla meraviglia per le grandi cose che ha operato in noi. Davvero se Teresa si è donata a Gesù, molto di più Gesù si è donato a Teresa e continua a donarsi a tutta la sua famiglia. Esortiamoci vicendevolmente a non dimenticare (“Ricorda, Israele!”) quale grande grazia egli ci ha fatto col chiamarci a far parte di questa storia, a ritenerci capaci di poterla testimoniare nel presente e farla avanzare verso il futuro, in un cammino di incessante fondazione, che – come Teresa ci ha insegnato – non si può mai considerare concluso. Nessuno di noi avrebbe potuto stare in questo posto, né assumere questa responsabilità, se non gli fosse stato donato da Dio, e se in ciò non si fossero manifestati il suo amore misericordioso e la sua gratuita iniziativa.
Un altro spunto di riflessione proviene dalla considerazione del segmento più recente della nostra storia. Nel 1962 l’Ordine celebrò il quarto centenario della riforma, giusto alle soglie del Vaticano II, che avrebbe segnato, sotto molti aspetti, l’inizio di un’epoca nuova nella storia della Chiesa. Questi ultimi cinquant’anni sono una tappa del nostro cammino, che si offre alla nostra serena valutazione storiografica e al nostro discernimento spirituale. Siamo molto cambiati in questi anni, ma continua a vibrare in noi la stessa vocazione e la stessa passione dei figli e delle figlie di Teresa di Gesù. Siamo consapevoli che non ogni cambiamento ha espresso la creatività del carisma, né ogni volontà di conservazione è stata manifestazione di fedeltà autentica. Ma soprattutto constatiamo che questa nostra realtà, complessa e a volte contraddittoria, è oggi abitata da volti nuovi, da nuove generazioni nate in questi cinquant’anni, con sensibilità nuove ed esperienze diverse, provenienti da tutte le parti del mondo, le quali in essa vogliono esprimere ciò che sono e ciò che hanno, fragilità e forza, povertà e ricchezza, intuizioni e oscurità, entusiasmo della giovinezza e saggezza dell’età già matura. Teresa aveva 47 anni quando risuonarono i primi rintocchi della campana di San José. Più di due terzi della sua esistenza terrena erano già trascorsi. A un’età che, in quel tempo assai più che nel nostro, doveva essere considerata piuttosto avanzata,
ella partiva per un’avventura completamente nuova, di cui presagiva i rischi e le incognite. Sappiamo che due forze le fecero superare ogni umana e ragionevole resistenza: la forza dell’esperienza di Dio e la forza della passione per una Chiesa e un mondo in preda a uno sconvolgimento epocale. Anche oggi sono queste le forze che possono animarci e rimetterci in cammino, o piuttosto aprirci un cammino in un paesaggio che a volte ci appare come un deserto vuoto e senza strade, in cui ci sentiamo dispersi, a volte come una foresta inestricabile, in cui è impossibile trovare un varco per avanzare. Teresa non poté contare né sull’appoggio di molti amici potenti, né su grandi risorse economiche. La sua stessa condizione di donna le era causa di innumerevoli difficoltà e limitazioni. Ci furono momenti in cui il progetto della nuova fondazione dovette sembrarle semplicemente irrealizzabile, e se ne lamentò col Signore, che le chiedeva cose impossibili (cfr. Vita 33, 11). La storia della prima fondazione è un intreccio di fatiche, di dubbi, di persecuzioni e di ostacoli di ogni genere, ma al tempo stesso di consolazioni, di incontri provvidenziali, di aiuti inaspettati e soprattutto di certezze interiori continuamente ravvivate. Per questo il racconto di essa si trasforma da narrazione autobiografica in confessione di fede vissuta, in racconto di una storia di salvezza, la cui memoria deve essere tramandata di generazione in generazione perché ad essa si continui ad attingere forza e ispirazione. Al destinatario del libro della Vita, il P. García de Toledo, Teresa lasciò la libertà di cancellare tutto, salvo il racconto della prima fondazione: “Pertanto supplico la signoria vostra, per amore di Dio, di strappare,nel caso lo creda opportuno, le altre parti di questo manoscritto, ma di conservare quanto riguarda questo monastero, affidandolo, dopo la mia morte, alle consorelle che staranno qui. Le nuove venute ne saranno molto incoraggiate a servire Dio e a fare il possibile, non solo perché l’opera incominciata non vada in rovina, ma perché progredisca sempre più, vedendo quanto il Signore si è adoperato per il suo compimento, mediante uno strumento imperfetto e misero come sono io“ (Vita, 36, 29).

Un’opera oggi posta nelle nostre mani
È con questo spirito che anche noi, dopo 450 anni, ritorniamo a quella esperienza fondante, da cui siamo nati. Se il Signore si è tanto adoperato perché quell’opera si compisse, continuerà a farlo perché essa non vada in rovina, ma al contrario progredisca sempre più. Teresa ci tiene a sottolineare che se tutto ciò si è potuto realizzare, ciò non è dipeso dallo strumento utilizzato, una donna imperfetta e povera come lei, ma da colui che ha voluto servirsene. Teresa non è falsamente umile, dice – come sempre – “cose verissime” (Vita 40, 3), in modo particolare riguardo a un fatto così importante come la riforma del Carmelo. È l’opera del Signore, al cui servizio ella si è posta, non senza dubbi, angosce e resistenze. Ma alla fine la sua grazia è stata più forte.
Quest’opera voluta da Dio, questo gioiello prezioso di cui ha voluto adornare Teresa, e in lei tutta la Chiesa (mi riferisco alla famosa visione narrata in Vita 33, 14), è ora posto nelle nostre mani. Che cosa ne faremo? Quale sarà la nostra risposta all’appello che ci giunge dalle pagine autobiografiche della Santa Madre? Tante volte oggi parliamo della crisi della vita religiosa, delle sue difficoltà dovute – specialmente in Occidente – alla mancanza di vocazioni e all’invecchiamento delle comunità, ma anche e ancor di più a una generale perdita di motivazioni e a una crisi di identità. Non voglio minimizzare questi problemi, di cui facciamo esperienza quotidianamente, tanto più coloro che sono stati chiamati al servizio dell’autorità. Senza dubbio la crisi che stiamo vivendo è epocale e non si potrà uscire da essa senza intuizioni nuove e cambiamenti profondi.

Da dove le nuove intuizioni?
Ma la domanda che mi sembra essenziale è: da dove potranno venire queste intuizioni nuove? Dove attingeremo forza per i cambiamenti che i tempi richiedono? Ho notato che in questo periodo di crisi economica sta riscuotendo molto successo un pensiero che Albert Einstein scrisse all’indomani della grande crisi del 1929. Lo si trova citato in una infinità di siti web, di blog e perfino l’ho trovato in una lettera che una consorella mi ha inviato. Scriveva Einstein nel 1935: “La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi.
La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. È nella crisi che sorge l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera se stesso senza essere “superato”.
Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà violenta il suo stesso talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni. La vera crisi è la crisi dell’incompetenza.
L’inconveniente delle persone e delle nazioni è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie di uscita. Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia. Senza crisi non c’è merito. È nella crisi che emerge il meglio di ognuno, perché senza crisi tutti i venti sono solo lievi brezze. Parlare di crisi significa incrementarla, e tacere nella crisi è esaltare il conformismo. Invece, lavoriamo duro. Finiamola una volta per tutte con l’unica crisi pericolosa, che è la tragedia di non voler lottare per superarla”.
Sono certamente parole di stimolo e di speranza, che invitano a rialzarsi e a dare il meglio di sé, senza lasciarsi vincere dalla paura e dallo scoraggiamento. È possibile che per l’economia e per la politica queste parole colgano nel segno e indichino la via giusta per uscire dalla crisi. Ciononostante, non mi pare che si possa dire lo stesso riguardo alla crisi della vita religiosa e della vita spirituale. Fare appello alle risorse della volontà e dell’intelligenza dell’uomo è giusto, invitare a elaborare progetti efficaci e a sviluppare una creatività che renda capaci di affrontare le sfide del presente, ha un senso e una indiscutibile ragionevolezza. E tuttavia, dobbiamo essere coscienti che non saranno i nostri progetti a salvarci. Abbiamo bisogno di bere a una fonte d’acqua viva, che sgorga da una vena molto più profonda, dove l’uomo non fa, ma si lascia fare, dove non sceglie, ma accetta di essere scelto, dove non sperimenta la sua sapienza e forza, ma la sua stoltezza e debolezza. La via d’uscita non si trova cercando di tornare indietro, alla situazione precedente la crisi, o di proiettarsi in avanti, ma approfondendo la crisi presente, scendendo fino alle sue radici, in quelle profondità dove le cose si vedono diversamente, l’agitazione e la paura si placano e la preghiera del povero comincia a innalzarsi più pura, più umile e più vera. Da essa possiamo riprendere il cammino.
Questa via che va verso il basso e che Teresa ha percorso e ha continuato a percorrere fino all’ultimo giorno della sua vita, la via del mistero pasquale, la si può imboccare solo quando si è sperimentato che tutte le altre vie sono vicoli ciechi o sentieri che si perdono nel nulla. È un cammino che ha come bastone la preghiera e come bisaccia la perdita di sé, e per questo assomiglia
al cammino dei discepoli di Gesù, chiamati ad abbandonare tutto per andar dietro a colui in cui credono e da cui sperano tutto. Un cammino in cui – come scriveva il Beato Newman nella sua magnifica poesia “La colonna di nube” – non si pretende di vedere in lontananza, ma solo quel piccolo passo che ogni giorno siamo chiamati a fare.
È forse questo “il poco che dipende da noi”, che Teresa ha scelto di compiere nel momento in cui ha preso coscienza della gravità della situazione in cui la Chiesa e il mondo si trovavano e della missione che il Signore le stava affidando. So che può sembrare davvero molto poco, ma è proprio il poco e il piccolo, per non dire il nulla, ciò da cui Dio crea il tutto. E di questo noi abbiamo il dovere di essere testimoni, con Teresa e come Teresa lo è stata a partire da quel lontano eppure vicinissimo 24 agosto 1562».

(Testimoni 15 del 2012)