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Immagine6Agosto 2012

Ricerca di una nuova figura di Vita Religiosa

Aprirsi a nuovi orizzonti

Diversamente da un tempo, nella Vita Religiosa le risposte di senso non vengono dall’impegno verso un codice o da un glorioso passato o da un’attività, anche se apostolica, ma da una esistenza ricca di creatività più che di paure. Occorre trovare nuove tracce di senso.

«In ricerca di una nuova figura di Vita Religiosa»: l’espressione è virgolettata perché riporta una espressione del Ministro generale dei cappuccini. È qui indicato un tema che sta emergendo con forza e che viene a dire l’urgenza per la Vita Religiosa, di porre mano decisamente alle fondamenta.
Non si tratta soltanto di superare espressioni, pensieri e atteggiamenti obsoleti, ma è necessario porre mano al “sistema culturale” che l’ha finora caratterizzata aprendosi a nuovi orizzonti di senso. A dirlo non è soltanto l’ex Maestro dei domenicani, p. T. Radcliffe, ma vari altri che con parole diverse invitano, per non fallire nel progetto di “attraversamento”, a svincolare il nucleo centrale dalle sovrastrutture per riproporre nell’oggi l’essenziale. Si tratta di non continuare a presentare come attuale ciò che non lo è; come sostanziale ciò che è formale; come “rivelato” ciò che è soltanto storico.

Trovare nuove tracce di senso
In questo momento in cui l’umanità sta ridisegnando con immensa fatica i lineamenti della propria identità, la VR non è dispensata dal dover trovare nuove tracce di senso per allargare possibilità di vita nella consapevolezza che non «si esce da nessuna crisi se non aderendo fino in fondo al processo trasformativo che essa segnala e spinge ad attuare». Nell’impegnarsi in questo, la bussola orientatrice non può essere soltanto la memoria, per il fatto che il presente non somiglia al passato e in particolare a quel passato per il quale tutto l’essenziale e tutto il decisivo è già accaduto e attende soltanto di essere portato a compimento. È già stato detto che siamo gli ultimi (non della Vita Religiosa) ma di uno stile di Vita Religiosa. Se di essa non si accetta che muoia una data figura non ne nascerà una di nuova. Si tratta dunque di ripensarne la figura, non per rinchiuderci e riconfermare stili già acquisiti ma per allargare possibilità di vita, liberando i valori intrinseci da quelli strumentali, uscendo, dalle strettoie storico-giuridiche che essa stessa si è imposte, tutta presa a vedere il problema nelle differenze tra forma e specie.

«È arrivato il tempo in cui la fraternità della Vita Religiosa ormai non dipende da un solo tipo di vita comunitaria monastico-conventuale».
A dirlo è p. Maccise dopo una lunga esperienza di governo del suo Ordine. È un’espressione che viene a dire che la VR e in particolare la sua tipica vita comunitaria, per essere trovata credibile e desiderabile deve riuscire a proporre inediti schemi non “sigillati”, aperti a Dio, al mondo, alla storia, prendendo le distanze da se stessa, da un certo stile, da un determinato linguaggio, da un dogmatico quanto inattuale universo concettuale. Il mondo un po’ autistico entro cui si muove le impedisce di dare attualità, presenza, incidenza storica agli appelli del Vangelo in risposta alle attese dell’uomo d’oggi. L’attuale crisi di vita comunitaria (che è crisi di individui), è crisi di un modello di VR. È possibile uscirne riproponendo innanzitutto un nuovo tipo di vita comunitaria quale società fraterna ed egualitaria all’interno di un pluralismo di modelli di comunione che assumano le caratteristiche, la cultura, i valori umani e religiosi di un dato territorio e dei popoli all’interno dei quali i religiosi vivono.

È vero che la vita comunitaria come espressa ora dalla Vita Religiosa è la forma più trasparentemente evangelica della comunione? Che cosa dice l’attuale riflessione teologica? (Sr.O.N.)
I testi neotestamentari dicono che ogni chiamata cristiana ha carattere comunitario, e non dicono invece che la vita comunitaria sia riservata a una sola categoria speciale di credenti. Dunque la vita comunitaria non è propria di un gruppo, bensì interviene come realtà fondamentale dello stesso essere cristiano. Non si nega che tra le differenti modalità di essere discepoli ci sia una forma che intende vivere la comunione in senso “locale” e stabile, ma altra cosa è dire che questa sia la forma che meglio visibilizza lo stare costantemente con il Maestro. Fenomenologicamente esistono delle differenze, ma cristianamente non possiamo stabilire la superiorità di una forma sull’altra. Questo risponderebbe allo schema antico delle due vie in cui una era privilegiata sull’altra, ma tutto ciò non quadra con il Vangelo. L’elemento specifico che distingue una data forma non è detto che fondi la sua identità più profonda.
Si può dunque convenire che la diversità di forma comunitaria vissuta nella Vita Religiosa non è dovuta ad un elemento teologico che la differenzi dalle altre, ma a fattori diversi, quanto differenti sono i tempi entro cui è andata sviluppandosi. Dopo la fase anacoretica di dispersione nel deserto, il mettersi assieme è dovuto anche a un problema di sopravvivenza; in seguito, al tempo delle grandi abbazie, ai fini dell’autarchia e delle opere colonizzatrici, è la funzionalità che determina l’associarsi (Th. Matura); e infine specie a partire dal millecinquecento, ci si mette assieme anche in vista di una maggiore efficienza apostolica; si legge negli scritti di Ignazio di Loyola: «il valore di molti uniti assieme ha certo più vigore e consistenza, per ottenere qualunque arduo risultato, che non se si disperde in più direzioni». In ogni caso la differenza tra le diverse espressioni di vita comunitaria non consisterà nella diversità di forma ma nella densità di vita evangelica espressa, e nell’ampiezza di significazione secondo criteri di leggibilità di un dato momento culturale.

Un tempo si diceva che il detto di Gesù: “chiunque avrà lasciato case o fratelli o sorelle, o padre, madre avrà in eredità la vita eterna” (Mt 19,29), indicava chiaramente la forma di vita in comune come espressa dalla VR … ma è proprio vero? (p.O.V.)
I religiosi sono nati, vocazionalmente, come ricercatori di “vita” e se è così, ogni loro progetto nasce attorno a sogni “vitali” e dunque di liberazione. Nel testo sopra citato il sogno consiste nell’aderire alla persona di Cristo al di sopra di ogni altro vincolo familiare e sociale, intravvedendo in lui un nuovo centro per le loro vite, più solido di tutte le sicurezze precedenti. Nel detto di Gesù riportato da Matteo c’è la descrizione del tipico contesto ufficiale dei legami, che era impensabile poter superare: padri, madri, sorelle, fratelli, e vi è indicata una nuova prospettiva che discepoli e discepole provano a realizzare. Allora seguire Cristo è un’alternativa per ripensare le relazioni; non è inventare un’organizzazione, ma superare quei legami fissi, programmati, gerarchici che vincolano e non permettono di camminare (cfr Mc 10, 28-31). Forse è anche in questo senso che dovremmo leggere il testo evangelico di Matteo che invita a scavalcare l’immagine fissa di comunità o di vita insieme, divenuta lungo i secoli un paradigma intoccabile, in qualche caso immagine gerarchica, patriarcale o matriarcale di una società, mentre Gesù allarga questi confini codificati e ne propone altri. Questo significa che la comunità non è un progetto organizzativo, per portare avanti qualcosa, ma è da intendersi come legame affettivo, vero, con Cristo e i fratelli, come possibilità di vita, garanzia del suo ritorno. Successivamente nel corso della storia, ciò che era intuizione di vita: disponibilità, itineranza, distaccamento da cose e persone, è stato dogmatizzato in formule.
Oggi nella Chiesa non è venuto meno il sogno di seguire Cristo secondo il dettato espresso nel testo di Matteo, anzi mai come in questo nostro tempo sono nate molte, ricche e ampie forme di appartenenza al vangelo, con forte valenza missionaria. Le differenze, tra antiche e nuove, non sono a livello teologico ma semplicemente psicologico: “mi piace”, “risponde alle mie attese”, “è conforme alle mie attitudini”...
Queste nuove forme sono una grande opportunità, data a tutti, con cui confrontarsi, a partire dal constatare – scrive il noto teologo M.Kehl – che l’«esperienza comunitaria di fede viene sempre più ricercata in “punti di cristallizzazione” segnati da relazioni interpersonali e processi di riconoscimento affettivamente forti, e sempre meno nell’esperienza di vita religiosa».

Nella “Populorum progressio” è detto che “la Chiesa è esperta di umanità”. Ma la vita comunitaria dei religiosi visibilizza questo? (Fr. G.H.)
L’enciclica dice anche che la Chiesa soffre al vedere insoddisfatte le migliori aspirazioni degli uomini e desidera essere di aiuto a raggiungere la loro piena fioritura (PP.13). Tutto ciò non è stato uno slittamento della sua funzione dal piano della trascendenza a quello dell’immanenza, dal divino all’umano, ma è stata invece una accentuazione provvidenziale del fatto che Dio viene portando pienezza di umanità, non come punto di fuga dalla vita, ma come punto di lievito. Dice inoltre che alla Chiesa sono richieste forme di presenza del “regno” che facciano intravvedere che la risurrezione è già nella storia e c’è la possibilità di viverla in essa; e che nel concetto di redenzione,in riferimento alle relazioni, c’è il riscatto anche dei rapporti servo-padrone, schiavo-libero, superiore-inferiore, al fine di poter essere, tutti, «servi» gli uni degli altri, essendo questo l’unico titolo che permette la fraternità.
In un incontro di religiosi, uno dei presenti chiese: «non sarà che la situazione di sofferenza della VR è dovuta al fatto che nel suo vivere c’è una mancanza di esperienza con l’umano più umano?». Questa domanda, indirettamente, viene a dire che alla Vita Religiosa non è sufficiente esaurire l’attenzione all’umano nelle tante presenze samaritane del proprio “fare”, ma deve poter esprimere forme “incuriosenti” di comunione in ambito di vita quotidiana e comunitaria che sappiano assumere e reinterpretare l’umanità di Cristo.
In questo nostro tempo all’interno di quasi tutte le forme di VR, sia apostolica che contemplativa, si è arrivati alla sensazione di insostenibilità di forme di vita, eccedenti (forse) nella linea del “buono” (etico) e meno in quello del bello esistenziale. La colgo da un brano di lettera (pubblicata da p. A. Cencini in Guardate al futuro che una responsabile di un monastero invia al p. generale del ramo maschile: «Padre io vedo comunità… aggrappate per paura a strutture ormai del tutto insufficienti e inadeguate a incarnare il carisma nel mondo contemporaneo… non osando cercare strade nuove su cui vivere i valori imperituri della contemplazione... Padre mio, non ci sto più a identificare il nostro spirito con la regola e osservanza. Non mi basta. Questo sta creando solo gente frustrata. Anche le giovani che entrano con entusiasmo, si trasformano e si spengono, adeguandosi… Ti sei mai chiesto perché le nostre comunità stiano diventando sempre più il ricettacolo di casi più o meno psicotici?».
Quanto espresso in questa riflessione viene a dire che, diversamente da un tempo, nella VR le risposte di senso non vengono dall’impegno verso un codice, o da un glorioso passato o da una attività, anche se apostolica, ma da una esistenza ricca di creatività più che di paure, e soprattutto da una vita di comunione con persone concrete che vogliano vivere da fratelli e sorelle, con le quali tessere relazioni di prossimità ad altezza dello sguardo e a portata della voce: questo è ciò che rigenera la vita e la fede, quanto basta a spingere a investire in un “per sempre” le capacità e attitudini, dando il meglio di sé in prospettiva apostolica e nel contempo missionaria se vissute a una tensione tale da scaldare il cuore dei credenti e in particolare dei giovani, oggi non disponibili ad immiserire la vita negando la pienezza del vivere.

(Rino Cozza csj, su Testimoni 13 del 2012)