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empatiaLuglio 2012

Comunione e contemplazione nei rapporti reciproci

L’empatia nei rapporti comunitari

L’empatia aiuta le persone a vivere una nuova realtà di comunione, perché consente ad ognuno di sentirsi accolto e capito dagli altri che gli vivono accanto, e di essere se stesso. Alcune semplici regole che facilitano le relazioni empatiche.
Un recente intervento del Papa sul significato della comunione e della contemplazione offre uno spunto di riflessione sull’importanza dei rapporti interpersonali intesi come incontro profondo e trasformante, a cui anche i consacrati sono chiamati attraverso la loro esperienza di vita. «Comunione e contemplazione non si possono separare, vanno insieme. Per comunicare veramente con un’altra persona devo conoscerla, saper stare in silenzio vicino a lei, ascoltarla, guardarla con amore. Il vero amore e la vera amicizia vivono sempre di questa reciprocità di sguardi, di silenzi intensi, eloquenti, pieni di rispetto e di venerazione, così che l’incontro sia vissuto profondamente, in modo personale e non superficiale».
L’amore reciproco nella vita consacrata richiede questa integrazione tra comunione e contemplazione, perché i consacrati sono chiamati a contemplare e testimoniare il volto trasfigurato di Cristo attraverso la loro esistenza “trasfigurata” nei rapporti reciproci.
L’empatia aiuta le persone a vivere questa nuova realtà di comunione, perché consente ad ognuno di sentirsi accolto e capito dagli altri che gli vivono accanto, lasciando che ciascuno si esprima al meglio con le proprie capacità e qualità. Ma questo desiderio di comunione deve passare attraverso l’esperienza contemplativa del volto di Cristo nella realtà concreta del fratello. Diversamente rischia di ridursi a un fervore momentaneo o a uno slancio di simpatia reciproca, che però non lascia il segno di un amore disinteressato e gratuito per l’altro.
Ma come collegare l’empatia con l’amore evangelico? E come distinguere gli atteggiamenti empatici autenticamente finalizzati al bene dell’altro da quelli che servono a soddisfare i propri interessi psico-affettivi?

Espressione emotiva ed empatia
Il termine “empatia” indica «la capacità di immedesimarsi in un’altra persona fino a coglierne i pensieri e gli stati d’animo». È una modalità emotiva particolare che pervade il modo di stare insieme, tra persone che condividono valori e progetti comuni. Avere un atteggiamento empatico vuol dire «entrare nel mondo personale dell’altro e starci a proprio agio come a casa propria. Ciò implica essere sensibile, momento per momento, al cambiamento dei significati sperimentati che fluiscono nell’altra persona». L’empatia quindi scaturisce da una sensibilità affettiva che aiuta ad aprirsi verso le convinzioni, gli interessi e i bisogni dell’altro.
Essa è influenzata dal proprio sistema di personalità ma allo stesso tempo è un atteggiamento che influenza le relazioni perché aiuta ad essere attenti gli uni verso gli altri.
«Per comprendere a livello empatico una persona, si richiede un atteggiamento “recettivo”. Nella relazione interpersonale la recettività rappresenta una disposizione fortemente attiva, profondamente umana e propria della persona matura. Infatti, è segno di maturità affettiva accettare l’altro senza imporre condizioni, essere disponibili e non possessivi. Si può dire che la recettività è segno sicuro di un alto livello di maturità personale, che pochi raggiungono». Oltre a questo aspetto esperienziale, inteso come reazione emozionale al vissuto emotivo altrui, l’empatia comprende anche la capacità di verbalizzare i sentimenti quando si è in relazione con gli altri. Ciò vuol dire comunicare all’altro le proprie emozioni, e riconoscere le emozioni che l’altra persona vive, assumendo il suo punto di vista e condividendolo con reciproco rispetto e comprensione, facendo fluire nel rapporto una comprensione vicendevole che apra la convivenza a nuovi significati. Una tale reciprocità empatica predispone i religiosi e le religiose ad un nuovo modo di vivere i rapporti, dove le persone sono capaci di contemplare l’alterità di Dio nella realtà dei fratelli e delle sorelle che vivono accanto.

La riscoperta del senso del “Noi” comunitario
La capacità di sentire, condividere e capire gli stati emotivi degli altri ha un ruolo importante nelle interazioni comunitarie perché aiuta a rinnovare continuamente il proprio modo di relazionarsi. «La comunità religiosa diventa allora il luogo dove si impara quotidianamente ad assumere quella mentalità rinnovata che permette di vivere la comunione fraterna attraverso la ricchezza dei diversi
doni e, nello stesso tempo, sospinge questi doni a convergere verso la fraternità e verso la corresponsabilità nel progetto apostolico».
La riscoperta del senso del “Noi” comunitario come esperienza di appartenenza vicendevole, permette di intravedere la meta comune, perché impegna ciascuno a “ricercare le cose di Cristo” nel rispetto delle singole differenze e nel disinteressato trascendersi verso l’altro. Per questo non basta la semplice simpatia. Si può partecipare e comunicare i propri stati affettivi all’altro, senza però smuoversi dai propri interessi personali. Cioè si può provare simpatia per qualcuno senza entrare in un rapporto di conoscenza “contemplativa” dell’altro.
L’empatia invece facilita non solo comportamenti armoniosi e positivi, ma permette di comunicare in forma più ampia e più profonda. Per questo è una componente necessaria per la vita comune, poiché promuovendo rapporti empatici i consacrati e le consacrate possono creare un nuovo tipo di solidarietà, fondato sulla partecipazione a una comunione che trascende i vantaggi di una semplice armonia relazionale.

Andare oltre i propri interessi psico-affettivi
Non basta essere d’accordo con la consorella o il confratello che vive accanto, per dire di sentirsi empaticamente sintonizzati. Né è sufficiente essere vinti dal dolore dell’altro che soffre, per essere empatici con lui. Questo perché non basta postulare l’identità degli stati affettivi di due persone per dire che c’è comunione tra di loro (cioè non basta sentire ciò che l’altro sente, per vivere la solidarietà e l’amore evangelico).
Facciamo un esempio. Supponiamo che in una comunità religiosa una consorella anziana si lamenti per una recente operazione alla gamba. Quando deve essere medicata, viene assistita dalla sua superiora e da un’altra giovane consorella. Il medico resta di marmo: abituato a queste situazioni non ha nessun legame con l’anziana e preferisce concentrarsi sul suo compito. La giovane consorella che è lì presente rabbrividisce nel vedere il medico fare la medicazione, e al momento in cui le toglie il cerotto immagina che lo stia facendo a lei, al punto che quasi sente il dolore fisico associato (“contagio doloroso”).
Supponiamo invece che la madre superiora abbia un atteggiamento diverso, diciamo più empatico: mostrandosi calma e rassicurante, desidera consolare l’anziana ammalata, della quale immagina lo stress che prova in quel momento di dolore. È l’assenza della componente senso-motoria (cioè il fatto che non stia anticipando gli effetti della medicazione su di sé) che le permette di essere concentrata sulla sofferenza dell’altra. Anche la superiora soffre, ma il suo dolore non è provocato dal cerotto strappato bensì dalla condizione di disagio dell’anziana suora. A differenza della giovane consorella, essa (la superiora) immagina quanto doloroso sia per l’anziana quel momento, senza però anticipare un suo proprio dolore fisico. L’empatia genuina, quindi, spinge le persone a sentire ciò che l’altro sente senza un proprio “tornaconto” personale. La madre superiora che sente la sofferenza dell’anziana, empatizza con lei perché il suo sentimento è autenticamente centrato sull’altra. Il suo desiderio di consolarla in modo materno è sintonizzato con la situazione dell’altra. La giovane consorella invece è centrata su se stessa e al momento di sentire il dolore dell’anziana anticipa la sua stessa paura di star male. Questo “contagio emotivo” può portare a una certa “somiglianza degli affetti” (una sorta di “simpatia reciproca”), ma non è un amore disinteressato per chi soffre.

Verso una dedizione incondizionata al fratello
L’unicità della ricchezza di ogni persona viene rafforzata dall’empatia perché permettere di attivare dei comportamenti di vera riconoscenza reciproca. Per raggiungere tale obiettivo occorre «coltivare il rispetto reciproco con il quale si accetta il cammino lento dei più deboli e nello stesso tempo non si soffoca lo sbocciare di personalità più ricche. Un rispetto che favorisce la creatività, ma che sa fare anche appello alla responsabilità verso gli altri e alla solidarietà». I vissuti emotivi che a volte si provano nelle relazioni (dolore, ansia, paura, gioia, disgusto…) rendono difficile tale rispetto, poiché suscitano risonanze affettive centrate sui propri interessi psico-affettivi piuttosto che sulla dedizione gratuita e incondizionata verso l’altro.
L’empatia invece permette di rendere esplicita questa dedizione incondizionata o, detto altrimenti, di rendere concreta la capacità di essere “esperti” di comunione con gli altri, perché aiuta ad entrare nel mondo emozionale dell’altro facendo fluire – insieme alla condivisione emotiva – un nuovo modo di amare che è secondo gli insegnamenti del Vangelo. «Tale amore sollecito e rispettoso, non possessivo, ma gratuito, dovrebbe portare a far sentire vicino l’Amore del Signore, quell’Amore che ha condotto il Figlio di Dio a proclamare attraverso la croce, che non si può dubitare di essere amati dall’Amore».

Come stile evangelico di amorevole reciprocità
Cosa aiuta le persone a vivere una vera empatia reciproca? Ecco alcune semplici regole che facilitano relazioni empatiche, dove il focus è la ricerca delle “cose di Cristo”. Primo, è importante che il comportamento interpersonale rifletta lo stato interiore di ciascuno. Nello stare insieme e nell’operare insieme, non serve agire in modo calmo, sicuro, benevolo, affettuoso, se interiormente si vivono degli stati d’animo diversi. L’incongruenza tra ciò che si sente dentro e ciò che si mostra fuori porta ad uno stato di confusione relazionale.
A questo principio si associa il secondo, per il quale è importante allenarsi ad ascoltarsi e ad accettarsi per ciò che veramente si è, piuttosto che per quel che si vorrebbe apparire. Soltanto quando ci accettiamo così come siamo, possiamo attivare una piattaforma di autentica comprensione reciproca, consolidando il rapporto tra comunione e contemplazione nei vissuti reciproci.
La comprensione non valutativa dell’altro è la terza regola. Infatti le differenze e i difetti di cui il confratello o la consorella è portatore/portatrice, anziché essere una minaccia per la nostra vita comune potrebbero essere un arricchimento reciproco, se si ha il coraggio di passarli al setaccio di un’autentica correzione fraterna. «Il mezzo più sicuro per stimare profondamente qualcuno – per quanto paradossale ciò possa apparire – è quello di osservare i suoi difetti bene bene, perché le qualità più fondamentali di una persona si trovano spesso sul prolungamento esatto dei sui difetti più manifesti. Detto altrimenti, un difetto è spesso, a guardar bene, una qualità portata all’eccesso».
Infine, quarto principio, la relazione empatica ci impegna al servizio dell’altro… e non di noi stessi! Detto altrimenti, certi comportamenti non generano vera empatia se servono solo a guadagnare un po’ di simpatia dagli altri! Mentre invece diventano occasione di comprensione profonda se aprono la relazione a una dimensione diversa, centrata non tanto sui riscontri oggettivi (per esempio: “ti faccio un favore perché tu mi dica grazie”, oppure “sto bene in comunità perché gli altri mi capiscono”) ma sul dono gratuito di sé, secondo l’esempio di Gesù Cristo.
È questa nuova visione che spinge ognuno a fare dei gesti di amore semplicemente perché… c’è un amore più grande per cui ne vale la pena spendersi per gli altri. Il dono gratuito di sé – sul modello di Cristo buon pastore – è l’anima e il motore dell’amore reciproco in comunità. Soltanto allora i comportamenti che mostrano empatia, come l’accettazione reciproca, il rispetto, la mutua sopportazione, la pazienza, diventano i frutti di una reale spiritualità di comunione, che porta a contemplare nell’altro l’icona del Cristo vivente, accettando senza garanzie di essere strumenti “inutili” dell’amore di Dio.

(P. Giuseppe Crea, Mccj, Psicologo, Psicoterapeuta, su Testimoni 13 del 2012)