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220px-SamaritanLuglio 2012

L’esercizio della carità, oggi

Emergenza, pazienza e sapienza

Sia in chi offre aiuto, sia in chi lo riceve ci sono delle ambiguità ineliminabili. Fondamentale comunque, è mettere al centro la persona, non il problema,perché l’oggetto primo è sempre la relazione.

È sera. Dopo la cena la comunità si è ritirata in quello spazio di clausura che, nelle nostre case,  ormai non è più tanto un luogo fisico, quanto uno spazio vitale e virtuale, una sorta di “diritto” al riposo o “alle proprie cose”, in genere benedetto dalle nostre regole di vita e dai nostri progetti apostolici comunitari. Qualcuno suona alla porta e, casualmente, proprio tu stai passando dalla portineria in quel momento. Faccio finta di niente e ricupero velocemente la “clausura”? Rispondo al citofono. La voce la riconosci, o forse no. Dice di chiamarsi Giuseppe e di aver bisogno “un attimo”. Gli apro o non gli apro? Gli apro. Lo ascolto, non lo ascolto, gli do un paio di euro e lo saluto? In comunità ci siamo detti di non dare soldi. Lo ascolto. La storia l’ho già sentita riportare da qualche altro mio confratello. È stato al dormitorio pubblico, ma ha “esaurito” i giorni a disposizione e al momento non lo possono ricevere. Una famiglia che in altre occasioni l’ha aiutato ha cambiato casa e ora non può fare niente. «Non avreste un posto per me, almeno per stanotte che fa freddo?». Tu sai che un paio di stanze ci sono. Ma non puoi decidere autonomamente. Certo non si può convocare la comunità per ognuno che suona alla porta. Quella comunità della quale hai chiesto di far parte perché ti aiutasse a vivere la carità, unico comandamento e voto, e che ora ti si para davanti come un ostacolo. Proprio oggi non c’è nemmeno il superiore. E però lì in portineria, davanti a Giuseppe ci sono io.
La crisi economica sta moltiplicando le situazioni di singoli e famiglie che, per una ricaduta in sé anche piccola sull’azienda che dà lavoro o sul proprio risparmio, passano sotto il pelo dell’acqua. Che sia solo di un centimetro non importa: non respiri più. Paradossalmente, noi religiosi, che la povertà l’abbiamo scelta, ci troviamo mediamente più garantiti e con qualcosa in più del necessario.

Il cuore, ma non solo
Emergenza o no, crisi o no, la carità – specialmente quella di una comunità, al di là dei carismi personali ed eccezionali – va esercitata secondo intelligenza. Lo spontaneismo non è più genuino, è semplicemente più pigro.
Si è voluto appunto far appello all’intelligenza, all’interno della nostra Provincia religiosa, organizzando un percorso, al modo di “laboratorio”, sull’ “esercizio intelligente della carità”. La tappa più recente ha messo a fuoco «le ambiguità della carità, in chi le opera e in chi la riceve». L’ha guidata un robusto don Virginio Colmegna, forte della sua esperienza in Caritas ambrosiana e, dal 2002, presidente della Fondazione Casa della Carità voluta dal card. Martini prima di lasciare la diocesi di Milano. Essa costituisce non soltanto un luogo privilegiato della carità ecclesiale, ma anche un osservatorio culturale sulla città. Don Virginio si è valso, per questo appuntamento, della collaborazione di Silvia Landra, psichiatra e direttrice della Casa della Carità.

Ambiguità ineliminabili
I due animatori hanno sintetizzato le ambiguità della carità in una duplice terna.
In chi riceve aiuto:
– «Chiedo e perciò sono un inetto». Ci si lascia ingabbiare dentro una percezione di sé che porta poco a poco al misconoscimento della propria dignità e dei propri diritti.
– «Chiedo e non potrò che ricevere sempre, perché sono un assistito». Forma anche questa di progressiva assuefazione rinunciataria, che radica e sviluppa un atteggiamento assistenzialista.
– «Chiedo e non mi basta mai ciò che ricevo, perché altri hanno di più». In una cultura fortemente competitiva, dove il benessere è tale solo se può essere esibito, questa suggestione alimenta rabbia e invidia, incompatibili con una dinamica di carità. Il metro malato del «non mi basta mai» è diffuso anche – e forse ancor più – tra gli abbienti. È particolarmente opprimente in chi si è trovato a scendere dalla comitiva dei “benestanti”. Tutto ciò che si fa per convertire questa mentalità è carità intelligente.

In chi offre aiuto:
– la prima e più diffusa ambiguità la sperimentiamo nel momento in cui esercitiamo la carità, in modo paradossale, per negare o contenere i sentimenti: «Ti do non per sviluppare una relazione, ma per porvi fine».
– Ogni gesto asimmetrico, per il quale uno dà e l’altro riceve, è intrinsecamente segnato dalla suggestione di un certo “potere”: «Ti do perché io posso». Poi nelle nostre testimonianze o nei discorsi di ringraziamento diciamo – ed è vero – che «è molto di più quello che abbiamo ricevuto di quello che abbiamo dato», ma intanto dobbiamo tenere desta la consapevolezza che si tratta di una relazione gerarchica, dove chi dà è in posizione dominante.
– In ogni relazione, anche quella d’aiuto, c’è una componente narcisista, dal punto di vista psicologico, e ideologica, dal punto di vista sociologico: «Ti do perché altri sono scadenti e non hanno saputo darti». Aspettare che i nostri gesti siano scevri da infiltrazioni egocentriche o da interessi di autostima significa attendere la parusia e intanto inanellare omissioni. Importante è saper tenere queste componenti nel ruolo degli inevitabili rumori di fondo e dedicarsi alla suonata.
Il denaro è veicolo e moltiplicatore delle ambiguità, benché sia – almeno a uno sguardo superficiale – l’oggetto più ambito da chi domanda e più risolutivo per chi risponde. Nella dinamica dell’aiuto, invece – purtroppo o per fortuna – la relazione è ineliminabile, che io lo voglia o no. Il denaro può costituire la sintassi della relazione, ma non la può sostituire.

Persone, non verbi
Nell’agire la carità, è fondamentale metter e al centro la persona, non il problema. E non solo perché ogni caso è singolare, ma appunto perché l’oggetto primo è sempre la relazione. Non si donano mai soltanto cose; è sempre implicata una forma del dono di sé. Specularmente, anche chi chiede fa conoscere il suo bisogno per domandare ogni volta di essere riconosciuto come persona.
In questo approccio ha una valenza particolare la dimensione spirituale. Per un credente, per un religioso in particolare, è attenzione che non può essere disgiunta dalla solidarietà umana. Decisiva è la preghiera, che si sostanzia del racconto del vissuto, delle persone incontrate e dei sentimenti provati. Di essi è importante sviluppare consapevolezza e saperli tenere, anzi comporre, perfino nel contrasto che li contrappone: rabbia e paura, pietà e tenerezza, imbarazzo e inquietudine. La preghiera è necessaria alla vita di carità, altrettanto quanto la vita di carità è necessaria alla preghiera. Una preghiera fatta col cuore non potrà ignorare, anzi attingerà proprio alle rabbie, alle frustrazioni, alla gratitudine che si mescolano senza compensazioni algebriche nel nostro vissuto.
Di tutti i sentimenti che ci attraversano, il più graffiante è il senso di colpa. Per saperci poco o tanto corresponsabili delle ingiustizie sociali. Per l’aver approvato proprio ieri il bilancio della nostra comunità e sentirlo accusato da quella mano tesa per chiedere senza giudicare. La colpa è l’eco cavernosa del nostro senso di responsabilità e non si può pensare l’uno senza l’altro. Dobbiamo portarli insieme. Non è facile, tanto meno dal punto di vista spirituale, stare dalla parte del donatore.

Linee prospettiche
Chiarite le coordinate che tracciano le fondamenta, è necessario declinare alcune strategie di intervento, che certo non garantiscono il successo operativo, ma almeno lo costruiscono in termini prudenziali.
Una direttrice di fondo vuole che l’intervento sia di équipe (comunitario, ecclesiale per dirla in termini teologici). Occorre saper fare appello a competenze diverse, da trovare in noi e in coloro dei quali ci fidiamo. Se non altro, perché nessuno di noi può ritenersi esperto in ogni campo. Sappiamo bene che la sindrome messianica è infruttuosa se non deleteria. L’onnipotenza va restituita a Dio.
Ma anche i personalismi sono sdrucciolevoli: la carità non è mai un gesto personalistico. Contiene sempre un tratto personale e carismatico, che sarebbe sprecone e ingiusto metter da parte. La metafora dell’orchestra rende sempre bene.
Se la relazione è al centro della carità, anche sul versante di chi chiede va ricostruito il contesto e la rete di relazioni. Perché non possiamo capire la persona senza sapere chi cerca e chi fugge, a chi si sente legata e da chi si sente respinta. E perché la rete di relazioni contiene le prime risorse da attivare.
La manipolazione è sempre in agguato, da parte di chi chiede come di chi dona. Una forma di manipolazione che si tende a sottovalutare è quella della dipendenza. Se non è condotto con sufficiente gratuità e “distacco”, anche il gesto di carità può dar seguito al bisogno inconscio di legare a noi le persone, sentirsi necessari per qualcuno. Senza dire che, naturalmente, anche chi chiede potrebbe svilire se stesso adottando condotte “parassitarie”, se non le sappiamo riconoscere e scoraggiare. La carità, per se stessa, non rende nemmeno innocenti o “buoni”. Qualsiasi intervento ha bisogno di un luogo di “pensiero” entro il quale ricercare “sapienzialità”. Non sono rare le situazioni nelle quali è bene agire diversamente, anzi fare l’opposto di quanto ci verrebbe spontaneo. Se non altro, per evitare generalizzazioni, stigmatizzazioni, risposte da manuale.
Responsabilità non esclude creatività. Ed è altrettanto necessario responsabilizzare l’altro, quanto meno per aiutarlo a «chiedere meglio aiuto ». Ogni singolo gesto dovrebbe collocarsi lungo un percorso, un piano ragionato attraverso il quale si restituisce una mappa grazie alla quale anche chi chiede possa orientarsi per incoraggiare la propria autonomia. Prendere tempo e distanza non sono forme di pigrizia o indifferenza. E nemmeno di sottovalutazione del bisogno. Sono un modo per aiutarsi e aiutare a non lasciarsi travolgere dall’affanno.
I momenti di confronto durante il laboratorio hanno identificato l’emergenza come uno dei fattori che maggiormente generano ansia e senso di impotenza. Moltiplicata in questi tempi di crisi generalizzata, di situazioni che precipitano rapidamente. Utopistico sognare le situazioni sempre pianificabili, sempre affrontabili con un progetto in mano. L’emergenza è parte della realtà. Siamo chiamati ad assumerla come dimensione strutturale, e non muoverci per negarla o tentare – invano – di annullarla; al più, farsi capaci di trasformarla in urgenza, senza mai dimenticare che l’emergenza può scavare fonti straordinarie di spiritualità. La parabola del buon samaritano racconta di un appello alla carità del tutto inatteso e urgente, rivolto alla persona sbagliata in un momento sbagliato. Ed è l’icona del farsi prossimo.
In definitiva, urgente non è la situazione ma la carità. E la carità non è ambigua, piuttosto assume l’ambiguità e la sa portare. Sapendo di non essere soli e comunicando la fiducia di non essere lasciati soli.

(Marcello Matté, su Testimoni 12 del 2012)