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ea435cecf81e9046af0970c196a098feMaggio 2012

Un anno dall’uccisione di Shahbaz Bhatti

 

Ma il suo martirio porterà frutto!

 

Il “martire” Shahbaz Bhatti “non è morto”, ma “è e rimarrà vivo in Cristo” e il suo sacrificio testimonia il desiderio di una nazione, il Pakistan,in cui le minoranze religiose possano godere di pari diritti e dignità.

Da quando il 2 marzo 2011 in Pakistan è stato assassinato Shahbhaz Bhatti, coraggioso e intrepido ministro per le minoranze emarginate e oppresse, malgrado sia passato del tempo, stranamente la polizia non ha ancora arrestato i colpevoli; anzi per molti mesi ha depistato le inchieste e ha cercato più volte di insabbiare la vicenda, attribuendo il movente a cristiani, interessati ad alcune proprietà della famiglia Bhatti. Anche le richieste di politici internazionali e la preghiera di Benedetto XVI per lui, sono rimaste inascoltate, mentre il paese continua a scivolare nell’insicurezza e nella violenza.
Ma «il “martire” Shahbaz Bhatti “non è morto, è e rimarrà vivo in Cristo” e il suo sacrificio testimonia il desiderio di una nazione, in cui le minoranze religiose possano godere di pari diritti e dignità». Così mons. Joseph Coutts, arcivescovo di Karachi e attuale presidente della Conferenza episcopale pakistana, ha ricordato il ministro cattolico durante le celebrazioni il 2 marzo scorso a Faisalabad e a Khushpur (nel Punjab), villaggio natale di Shahbaz. “Hanno partecipato alla Messa almeno tremila persone, tra cui anche musulmani, indù, sikh“ racconta ad Asia-News il fratello Paul Bhatti – consigliere speciale del Primo Ministro Gilani per l’armonia nazionale. “La gente gridava in massa ‘Shahbaz è vivo, non è morto’”.

Ministro e martire
In un libro appena uscito e presentato a Roma1 si può leggere: «La vita di Shahbaz è quella di un cristiano che non si è arreso di fronte a chi pensa che in Pakistan sia impossibile vivere insieme. È la storia di un uomo che ha lottato a mani nude ed è morto martire. La sua vicenda ci fa entrare nel mistero di una vita vissu a per gli altri fino alla fine. È una storia preziosa, non solo per i cristiani, ma per tutti: per il suo paese, che dal 1947 cerca una via per la pace e la coabitazione, come per il mondo intero, abitato ancora da troppi conflitti, a sfondo politico, etnico e religioso».
Paul Bhatti ricorda le battaglie portate avanti dal fratello, facendo emergere non solo la tenacia dell’azione politica di Shahbaz, ma anche un gusto dell’incontro umano, mutuato dalla sua formazione cristiana: «Nel 1998 l’allora primo ministro Nawaz Sharif propose di adottare la legge islamica come legge fondamentale del paese. Aveva la maggioranza e la Camera dei deputati la approvò. Shahbaz non era ancora parlamentare e sembrava non potesse fare nulla. L’unica possibilità per non far passare quella decisione era che il senato non votasse a favore. Così Shahbaz decise di andare da una parte all’altra del Pakistan cercando di convincere i senatori a non approvare quella legge. Ecco le parole di Shahbaz per raccontare la vittoria politica ottenuta: «Nel 1998 il governo introdusse un’altra legge sharía, di stampo talebano, attraverso la quale si voleva imporre un sistema nel quale i cristiani e altri non musulmani non avrebbero avuto diritti e sarebbero stati trattati alla stregua di schiavi e intoccabili. Lanciammo un’ulteriore campagna e ottenemmo il sostegno di parlamentari e organizzazioni civili. Grazie ai nostri instancabili sforzi e con la benedizione di Gesù riuscimmo a bloccare in Parlamento anche questo disegno di legge».
Sheraz Khurram Khan riporta in Absolute News, un discorso di Shahbaz Bhatti dell’agosto 2007, che ne rivela tutta la forza interiore e la trasparenza umana, politica e religiosa: «Preferiremo la crocifissione e la prigionia che accettare le leggi antidemocratiche e discriminatorie. Non le accetteremo mai. Oggi noi respingiamo tutte le leggi discriminatorie che sono in contrasto con la solidarietà nazionale. La mia lingua potrebbe essere tagliata. Potrei essere imprigionato o diventare bersaglio di attacchi terroristici, ma il vostro fratello e figlio non farà mai alcun compromesso sui vostri diritti. Non ho mai inseguito potere, ricchezza, uffici e privilegi, ma prego solo Dio di venire martirizzato mentre combatto per i diritti delle comunità religiose nel mio paese. Gesù è il centro della mia vita e voglio essere suo vero seguace attraverso le mie azioni, condividendo l’amore di Dio con i poveri, gli oppressi, i perseguitati, i bisognosi e i sofferenti del popolo del Pakistan. Voglio servire l’umanità sofferente e delle minoranze e diffondere un messaggio di speranza alle persone che vivono nella delusione e nella disperazione».
Annunciando il suo programma, ringrazia lo stato pakistano, non tanto perché aveva avuto fiducia in lui, ma perché la sua nomina rappresentava un importante riconoscimento per le minoranze del paese: «È mia intenzione proporre leggi a tutela dei diritti delle minoranze. Aumenterò gli sforzi per promuovere l’unità e la comprensione reciproca e contrastare l’intolleranza, l’odio, il pregiudizio e la violenza. Ringrazio il presidente Zardari e il primo ministro Gilani perché hanno riconosciuto il valore delle minoranze all’interno degli equilibri del paese, dando un senso di parità nei diritti di tutte le componenti della società pakistana».

Eredità feconda
La società civile pakistana intende mantenere vivo il ricordo di Bhatti, promuovendone il lavoro, gli ideali, il suo testamento politico e culturale. «Sono pronto a morire per la causa» aveva affermato Shahbaz in un video diffuso in internet, «vivo per la mia comunità... e morirò per difendere i diritti di ciascuno». Un lavoro e un’eredità condivise da molti leader musulmani moderati e imam. Per Maulana Mehfooz Khan, membro di Islamic ideology Council, Bhatti era «un ambasciatore dell’armonia interreligiosa» e il suo servizio per le minoranze “molto apprezzato”. «Era fermo nelle sue idee» conferma il leader musulmano e «il suo sacrificio non sarà vano, perché sarà ricordato come la voce di quelli senza voce». Gli fa eco il musulmano Iftikhar Ahmad, responsabile del Comitato per i diritti dell’infanzia, che ha lavorato a lungo con Shahbaz contro le leggi sulla blasfemia, la sharía: «Bhatti non era solo un leader delle minoranze, ma un vero difensore dei diritti umani».
A Islamabad sorgerà una università in suo onore, mentre a Kushpur (suo paese natale) saranno costruiti un museo e una scuola. Tutte le iniziative sono promosse dalla fondazione creata dal fratello Paul Bhatti, che ha lasciato la sua attività di medico in Italia per tornare in Pakistan e continuare l’opera di Shahbaz, come consigliere speciale del Primo ministro. Un altro progetto, inaugurato alla fine di marzo, è un museo intitolato a Shahbaz Bhatti, a Kushpur: conserva i suoi oggetti personali e alcuni ricordi scritti, per consentire ai visitatori di ripercorrere la sua vita e il suo impegno ecclesiale, sociale, politico. Annessa al museo, sorgerà una piccola scuola, sempre a suo nome, per offrire istruzione ai ragazzi poveri e tenere viva la memoria di Shahbaz nella comunità.
La Basilica di S. Bartolomeo all’Isola Tiberina, in Roma, è stata dedicata ai martiri del Terzo Millennio dal papa Giovanni Paolo II e nella Basilica, sull’altare dei martiri asiatici, è conservata la Bibbia personale di Shahbaz Bhatti. Bhatti era un uomo che aveva nella Bibbia una compagna quotidiana della sua vita, convinto che la Parola, presenza di Dio, era sorgente di luce e di forza per le sue battaglie.

Il Pakistan oggi
Il 14 marzo scorso cinquanta fra attivisti per i diritti umani e personalità politiche hanno lanciato una petizione al governo di Islamabad per la liberazione di Asia Bibi, la donna cristiana e madre di cinque figli condannata a morte per blasfemia in Pakistan nel novembre del 2010 e in attesa della sentenza di appello nel carcere femminile di Sheikhupura, nel Punjab. Anche per lei si era battuto Shahbaz.
Come riporta il sito di AsiaNews, la petizione è stata presentata al Palazzo delle Nazioni di Ginevra in Svizzera, sede europea della rappresentanza Onu, dove si è conclusa il 23 marzo la 19ma sessione del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. L’appello ricorda il “crimine” commesso da Asia Bibi: aver bevuto un bicchiere d’acqua raccolta da un pozzo di proprietà di un musulmano. Da qui l’accusa di aver “infettato’’ la fonte, poi la discussione con le altre donne e, infine, l’incriminazione per aver “insultato il profeta Maometto’’. Il documento denuncia anche le condizioni della cella in cui è rinchiusa la donna, che “può toccare le due pareti solo allungando le braccia’’.
I militanti islamici hanno ucciso più di 4.800 persone in tutto il Pakistan da quando le truppe governative hanno fatto irruzione in una moschea estremista a Islamabad nel luglio 2007.
«No all’uso politico della religione, all’abuso della legge sulla blasfemia, al fanatismo religioso», divenuto «un mostro che divora le basi della civile e pacifica convivenza»: è quanto afferma un appello lanciato il mese scorso al governo pakistano dalla rete “Cittadini per la democrazia”, che riunisce numerose organizzazioni professionali, partiti politici, sindacati, associazioni delle minoranze religiose e gruppi cristiani. La rete alza la voce in un momento in cui nel paese «si demoliscono luoghi di culto, avvengono uccisioni e rapimenti in nome della religione, si assiste a conversioni forzate e ad altre attività frutto dell’odio religioso». Nell’appello, inviato all’Agenzia Fides, si ricorda che «il padre della nazione, Muhammad Ali Jinnah, nel suo discorso all’Assemblea costituente, l’11 agosto 1947, precisò: siete liberi di andare ai vostri templi, alle vostre moschee o a ogni altro luogo di culto». La società civile invita il governo «a fermare l’uccisione delle comunità religiose del Pakistan, in particolare gli omicidi verso la comunità sunnita, verso quella sciita e verso le comunità degli ahmadi, che si trovano ad affrontare un genocidio semplicemente perché seguono le proprie convinzioni e pratiche religiose».

Una missione che continua
«Shahbaz non ha mai agito in maniera scorretta o violenta nei confronti di nessuno, neanche nei confronti dei musulmani. Non ha parlato male del profeta Maometto, non ha mancato di rispetto al Corano, ma ha detto con coraggio la verità. Agendo in questo modo ha sfidato coloro che avevano idee grette ed estremiste. Shahbaz era un uomo con una missione: portare pace, armonia, comprensione e amore in un paese che sta sperimentando una crescente intolleranza in nome della religione. Questa missione non è finita con la sua morte, ma deve continuare. Bhatti ci ha mostrato una strada, la via del dialogo e della pace, del lavoro per i poveri e dell’amicizia con tutti. Dobbiamo continuare a camminare su questa strada con coraggio, perché la sua morte possa portare frutto in abbondanza».

(Anna Maria Gellini, su Testimoni 7 del 2012)