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cm_vitafrat_01Aprile 2012

Intercongregazionalità fonte di vita e di futuro

Non da soli ma in comunione

 

 

Il nuovo modello di vita religiosa sarà in nuovi modelli di identità ecclesiale.Si tratta di fare in e con la Chiesa locale dei progetti, frutto del leggere insieme le sfide, di orientare le scelte, nella complementarietà dei carismi, in rapporto al territorio.

È tempo di riscoprire legami e dinamiche solidali: è questo un tema generatore di un futuro sul quale investire. Non è un caso che le società più dinamiche – non solo economicamente – siano quelle più aperte allo scambio con le altre. Questo viene a dire che oggi nessuno basta a se stesso. L’istruzione Ripartire da Cristo richiama l’attenzione sul comune vantaggio che scaturisce dalla communio. L’invito è di «avviare tutte le iniziative possibili per una sempre maggiore conoscenza e stima reciproche» (n. 32). Quindi è detto: «non si può più affrontare il futuro in dispersione. È il bisogno di essere Chiesa, di vivere insieme l’esperienza dello Spirito e della sequela di Cristo, di comunicare le esperienze del Vangelo, imparando ad amare la comunità e la famiglia religiosa dell’altro/a come la propria» (n.30).
San Bernardo nell’Apologia a Guglielmo di Saint-Thierry scriveva: «Io ammiro tutti gli ordini religiosi. Appartengo a uno di essi con l’osservanza, ma a tutti nella carità. Abbiamo bisogno gli uni degli altri: il bene spirituale che io non ho, lo ricevo dagli altri». San Paolo si spinge a dire: gareggiate nello stimarvi a vicenda. Le difficoltà sono nella cultura ancora troppo autoreferenziale, della maggior parte degli istituti, ancorata alla mentalità di quel tempo in cui si pensava che al fine di identificarsi, fosse necessario accentuare le separazioni piuttosto che la complementarietà delle diversità, e ora ci si ritrova reduci da cinquant’anni spesi (improduttivamente) nella riformattazione delle proprie identità culturali omologate.
In tempo di mutamento d’epoca, affermava Paulo Freire: «nessuno educa nessuno; nessuno educa se stesso; ci si educa insieme». Questo è vero sia per i singoli come per i gruppi sociali. Lo sviluppo di ogni mente ha bisogno di un’altra mente e di altre menti, perché le sfide che la complessità oggi pone, sono superiori alle forze di ciascuno. Si è arrivati a un tempo in cui i punti di contatto tra la cultura attuale e le forme storiche di vita consacrata sono molto pochi, da qui l’esaurimento di un ciclo della storia della VR.
Oggi è necessario riflettere sul senso dell’identità stessa della vita religiosa, che significa mettere mano alle sue “fondamenta”, quelle concettuali. Il riscatto dell’immaginazione, però, non riguarda soltanto la teologia, ma anche l’antropologia al fine di meglio capire “come” e “per quale” uomo e per quale società dobbiamo metterci in gioco: fare questo non è nella possibilità dei singoli Istituti perché il problema riguarda complessivamente la VR stessa. L’ uscire dai domìni di senso che non reggono più, richiede il mettere in discussione (trans-gredire) le premesse su cui si basa parte delle attuali convinzioni. A questo fine, l’ognuno per sé, non ha la forza di far succedere qualcosa di nuovo. È così che si è arrivati al punto che ogni carisma, chiuso nei propri pensieri ha perso l’idea stessa che la vita religiosa oggi possa realizzare nuovi modelli di vita, ricchi di dignità anche se diversi da un tempo.

Cum-munio per difendersi insieme
Porto qui l’attenzione sull’attuale criticità nella gestione delle opere. Nel passato, quando numericamente i religiosi erano sovrabbondanti, l’istanza carismatica si era espressa in opere ricche di intraprendenza e di generosità portate avanti direttamente dai membri di uno stesso istituto. Oggi queste opere sopravvivono con la presenza residuale di qualche religioso e l’apporto quasi totale di dipendenti i quali, anche se all’inizio avevano fatta la scelta valoriale carismatica dell’istituto in cui operano, un po’ alla volta si sono portati a fare di questi valori soltanto un’esperienza parziale, relegata alle cose da farsi o al tempo lavorativo e non espressione di una solidarietà che attraversa la vita. Il mutamento dell’ethos dell’operatore lo ha portato ad essere, via via, sempre più “lavorista”, rendendo fragili le logiche di dono necessarie nella relazione di aiuto secondo l’istanza carismatica.
A sua volta la tendenza lavorista ha portato alla “aziendalizzazione” delle attività. Ove questa logica è prevalente primeggiano conseguenze estranee alle risposte stesse, finendo con il perdere di vista il destinatario della risposta, a vantaggio esclusivo degli addetti, affievolendo in tal modo quella cultura, per esprimere la quale l’opera era sorta. Ora siamo al punto che se si intende salvaguardare le fondative istanze valoriali, è impossibile la gestione di opere ognuno per proprio conto con il 90% di professionisti esterni. Il «volerlo fare da soli è il residuo di un protagonismo risalente agli anni in cui le cifre lo permettevano».
Nella situazione attuale l’auto-mutuo-aiuto intercongregazionale allora non proviene soltanto dalla forza dei principi ma anche dalla debolezza dei numeri. È dunque urgente attivare processi di mutua corresponsabilità sui problemi gestionali delle attività apostoliche, a partire dalla consapevolezza che l’incapacità di associarsi in funzione di un bene comune porta queste ad essere a rischio.

Allargare il campo del mutualismo collaborativo
Il documento Ripartire da Cristo invita inoltre i religiosi/e a estendere la mutualità anche ai nuovi carismi: «dall’incontro e dalla comunione con i carismi dei movimenti ecclesiali può scaturire un reciproco arricchimento» (RdC 30). Soprattutto in tema di spiritualità, circa la quale in Vita consecrata si trova l’invito «a rispondere con sapienza evangelica alle domande poste oggi dall’ inquietudine del cuore umano» (VC 81). Con il dire spiritualità dei religiosi/e l’immaginario rimanda a qualcosa di etico, virtuoso, sostanzialmente individuale, incapace di catturare l’interesse e la passione delle giovani generazioni.
Si tratta allora di riacculturare la spiritualità che non significa soltanto diventare più spirituali, ma avere la capacità di marcarla con le attuali coordinate di vita e di ridirla con il linguaggio di coloro a cui ci si rivolge, non essendo più sufficiente quello delle nostre origini. Servono forme di spiritualità capaci di far vivere il Vangelo in termini nuovi, di produrre “stili di vita” che siano risposta ai bisogni del mondo; spiritualità in cui il rapporto con Dio, da esperienza prevalentemente individuale sia esperienza che passa attraverso un rapporto con le persone, per essere tra la gente promotori di relazioni comunionali. Per questo modo di intendere la spiritualità, con paradigmi che non dispensino dal vivere in profondità la contemporaneità, può essere di aiuto lo scambio di “sapienze” con i nuovi carismi mutuando da loro oltre all’attenzione alla “vita nello Spirito” anche l’ avvertenza di non chiudersi nella prevalente pastorale dei servizi (religiosi o sociali). C’è qui il pungolo ad essere nuovi anche con il passare dall’essere gestori in proprio della carità, o essere l’anima sociale dei nostri territori, all’essere esperti di vissuti relazionali intensi, che comunicano la possibilità di una vita diversa, evangelica. Non si tratta di svalutare quelle opere che sono testimonianza dell’amore, ma di correggere una tendenza, dovuta al mutamento in atto che rischia di svuotare di profezia la vita di molti Istituti.

L’«ecclesìa» esige l’essere insieme
In Vita consecrata (47) si legge: è tempo per i religiosi/e di un «ripensamento serio e creativo sul proprio modello di vita, con l’organizzazione e fisionomia ecclesiale». Il motivo è che l’universale che non si radica nel particolare è una pura astrazione. Gli istituti allora non potranno pensarsi al cuore della Chiesa universale e ai margini della Chiesa locale, ma in quella attraverso questa. Il nuovo allora sarà in esperienze che siano un intreccio fra ecclesiologia e vita consacrata.
Dalla consapevolezza di essere risorsa ecclesiale di una data chiesa locale, scaturisce la necessità per ognuno di tradurre il proprio modo di essere in una vera progettazione partecipata per una proficua interlocuzione tra i soggetti ecclesiali. È «ritornare alla ecclesiologia delle origini quando la varietà dei carismi non si era irrigidita in stati di vita».
Alla domanda “come vede la Chiesa del futuro?” C. Militello rispondeva: «mi piacerebbe pensare la Chiesa come un luogo aperto e accogliente nel quale ciascuno porta il suo dono e ogni dono costituisce una ricchezza per l’altro/altra». Diversamente da un tempo non interessiamo più per una vita a parte e atipica ma per una particolare modalità di vivere e di proporre dei valori che sono necessari a ogni persona umana. Il segno della separazione, dell’asimmetria, ha portato all’idea della VR come “diversa” e come tale sacralizzata, idealizzata, idea che ha tenuto fino al giorno in cui la crisi semantica del sacro l’ha spogliata della stima che scaturiva dalla sacralità di essa per cui oggi, specie nella cultura dei giovani, in questa diversità è prevalente il senso di “strano” che ha contribuito a rafforzare gli stereotipi negativi della vita religiosa. La VR non è né a lato dell’esistenza cristiana, né in parallelo né sopra, ma dentro.
T. Matura si esprime così: «La vita cristiana non è una sotto-categoria della vita religiosa, un minimo comune multiplo; è la vita religiosa ad essere un certo modo di realizzazione della vita cristiana, e non c’è niente di più grande e di più alto di quest’ultima». Allora far consistere la VR in alcuni elementi di diversità rappresenta un impoverimento della più ampia prospettiva evangelica. Il cammino da farsi è quello di visibilizzare il fatto di essere parte di un tutto: questo è il senso di vocazione particolare, essere un aspetto singolare e suggestivo (perfino irrinunciabile) del Vangelo senza comunque poterne compendiare la totalità.
Oggi alcune linee di indirizzo sono ormai delineate: il nuovo modello di vita religiosa sarà in nuovi modelli di identità ecclesiale per i quali diocesanità non vorrà dire dispersione ma ricupero del valore della chiesa locale. Si tratta di fare in questa e con questa dei progetti frutto del leggere insieme le sfide, di orientare le scelte, dell’interrogarsi come comunità in rapporto al territorio, in cui i religiosi/e, nella complementarietà dei carismi mettano a disposizione, oltre agli spazi, le loro competenze (di evangelizzazione, animazione, organizzative, gestionali), vivificandosi e fermentandosi a vicenda, il cui primo frutto è dato dal sentire che ognuno cresce nell’esercizio dello scambio di doni. La dinamizzazione, per ogni istituto, sarà in proporzione della fecondazione reciproca. Questo modello di relazioni intercongregazionali, all’interno del bacino delle fatiche, dei problemi e delle domande della gente che è il territorio ecclesiale e civile, è possibile dove si trovano persone con cui stabilire un dialogo, intrattenere rapporti positivi, una comunicazione franca e spigliata, un mutuo riconoscimento, una dimensione familiare. La consapevolezza che ci porta ad accogliere e promuovere queste novità come dono di Dio si esprime oggi con un linguaggio nuovo: “carismi condivisi”, “spiritualità condivise”, “missione condivisa”. Ciò significa, da parte di ogni carisma, assunzione della globalità di un progetto per condividerlo in qualche suo aspetto, come parte di un tutto con il quale confrontarsi, integrarsi, sistematizzarsi, senza “confondersi”, all’interno di «strutture mentali, spirituali, affettive, religiose e organizzative semplici, non aziendali, accoglienti, poco pesanti e aperte». Con questo spirito, l’agire collaborativo tra Istituti non sarà in funzione corporativistica ma per praticare e quindi testimoniare la complementarietà di tutti i carismi. «Se si percorrerà questa strada,– disse p. L. Nava – la Chiesa locale sarà un laboratorio di sperimentazione», e di nuove opportunità apostoliche per ogni Istituto.

Non un supermarket ma una grande comunione
Oggi nel processo rifondativo il punto di partenza per ogni famiglia religiosa è il ripensamento creativo circa le relazioni e il mutuo agire collaborativo tra i vari soggetti ecclesiali, perché la Chiesa non può essere «un supermarket di carismi ma un’unica grande comunione, a somiglianza trinitaria», liberi da pre-comprensioni e predefinizioni che vengono da mondi che non esistono più. Questa comunione non significa fondersi ma prendere coscienza della propria identità per aprirsi all’alterità, alla condivisione di carismi quale scambio reciproco di un qualcosa che non si possiede come proprietà privata ma come dono da ricevere e donare, essendo nella natura stessa dei carismi non essere considerati in sé, ma in funzione di un insieme. Diversamente ci si consegna ad un inevitabile destino di estraneità e diversità, con la conseguenza che un dato carisma diventa insignificante.
Il futuro non sta nel chiudersi nelle categorie teologiche e giuridiche che la vita religiosa si è costruita addosso e che si porta dietro per inerzia. Nello strumento di lavoro del Congresso 2004 si diceva che «si sta definendo un nuovo modello di vita consacrata attorno a nuove priorità, nuove forme organizzative e di collaborazione aperta e flessibile con tutti gli uomini e le donne di buona volontà». Nello stesso incontro internazionale dal palco dei relatori è stato inoltre detto: «Non impegnatevi nel continuare ad offrire risposte preconfezionate che ormai sono superate»; abbandonate il vostro mondo di realtà virtuali. Non evitate le strade pericolose, perché la novità emerge sempre fuori dai luoghi sicuri protetti e convenzionali». Dunque c’è da temere soltanto il peso dell’inerzia, che porta a essere propensi ad accettare ristagni asfissianti piuttosto che sperimentazioni.

(Rino Cozza csj, su Testimoni 7 del 2012)